venerdì 31 gennaio 2014

La Laverda in cucina

Tempo fa, in compagnia della Dolce che ne è stata artefice, mi dispongo ad una cena giapponese presso un locale segnalato nei bouquet di Groupon o Groupalia, non ricordo quale delle due, armato del tristo buono sconto.
Questo il preambolo, piuttosto banale, appena appena rivalutato dal fatto che lo scatenarsi di un temporale estivo con tuoni e lampi lo fa più pittoresco, quasi come i cristi tirati sapendo di avere dietro solo un ombrellino di quelli da stadio per ripararsi.
Ma comunque, il ristorante.
La via non mi è proprio nota, ma da qualche parte nel cervelletto rettile s'insinua il sospetto di averne già sentito il nome... ma è in periferia estrema.
Un RistoJappo di livello ai margini della tangenziale mi mette in moderata tensione psicofisica: possibile? Sbaglio io che sono solo un superficiale? Non può un onesto ristoratore lottare con la forza del suo sashimi per uscire dal limo del ghetto degradato?
Boh.
Arriviamo grazie al gps dei barboni, Tuttocittà (edizione 2003), ed è periferia dura.
Il cervelletto aveva ragione.
Mantengo un contegno mentre la Dolce trampola al mio fianco sui suoi taccazzi, protetti dall'infame ombrellino di cui sopra, e facciamo il nostro ingresso nel locale.
Da fuori è quasi invisibile, insegna assente, solo una targhetta sul muro, dentro penombra, ampia sala che si apre su di un gradevolissimo giardino d'inverno oltre i vetri del quale la pioggia cade su uno spazio zen con ponticelli e vasche d'acqua illuminate.
Sei un pirla prevenuto mi dico, guarda qua che gioiellino nascosto.
Improvvisamente mi sento anche molto furbo.
Passerà presto.
Il quadro è sporcato da un dettaglio di non poco conto: non c'è anima viva, mancherebbero solo le sedie sui tavoli per pensare al giorno di chiusura.
Ci guardiamo attorno con sconcerto quando appare il ristoratore orientale, scivolato fuori da quella che ritengo essere la cucina.
Non è orientale.
Né lui né, scoprirò di lì a breve, manco la cucina.
Pare un attempato professore di filosofia, riccioli candidi, panza prominente, un cigarillo inesploso all'angolo della bocca.
Si giustifica dicendo, ovviamente, che di solito è pieno e che, combinazione, questa sera no.
Cazzo, ma non c'è un cane, non è normale...
Magari il temporale, dice.
Vabbè, dura poco, perché dopo cinque minuti lì dentro gli occhi si sono abituati alla semioscurità e si posano su di una moto appoggiata al bancone del bar: é arancione, è bellissima, è una Laverda Sfc.
  

Ed è pure un pregiatissimo prima serie originale, con freni a tamburo e cerchi a raggi.
Sono emotivamente disarmato davanti a ella, un po' perchè quell'antica superbike mi è sempre piaciuta, un po' perchè la mia prima moto è stata proprio una Laverda, questa qui
 


che grippai furiosamente due volte senza peraltro mai cambiarle il pistone.
Ma ero un sedicenne decerebrato e con la velocità nel sangue, e sono vivo per miracolo.
Comprendetemi.
Risulta chiaro che già in quel momento il tipo avrebbe potuto servirmi un sushi di sterco ed io non me ne sarei accorto, ma la commedia di Ionèsco non era ancora nel pieno.
Perchè poco distante ce n'era un'altra di Sfc, stavolta un terza serie, con freni a disco e ruote in lega.
Così, per intenderci




Bella porcattroìa, bellissima.
Tutte e due perfette, mezzi che vengono scambiati in quelle condizioni a non meno di 10.000 euro e per i quali tedeschi e giapponesi potrebbero uccidere la mamma.
E lo stronzo ne ha due, praticamente in casa.
Qualche prurito sospetto inizia a salire dall'ano.
Non gli concedo spazio, e sbaglio; fidatevi sempre del vostro ano.
Lui sa.

Il titolare ci guida al tavolo, nel silenzio, mentre nel giardino si scatenano gli elementi.
Mi siedo e cerco di focalizzare meglio una sagoma che vedo riparata sotto un'elegante tettoia,
ma non ci si vede bene, e poi mi sembra impossibile. Strizzo gli occhi, poi mi alzo fingendo di voler vedere meglio la vasca dei pesci.
Una Rgs 1000, tricilindrica sport touring dell'82 od 83, tale e quale a questa


Per ella sbavavo e non vedendone una da un trentennio torno al tavolo turbato.
L'affabile ristoratore comincia a starmi sulle palle.
Faccio notare alla Dolce che non è mica normale questa situazione, ma lei è più interessata al menù, che infatti è sospetto anche lui.
Perché le portate sono poche, e mica tutte giapponesi: c'è anche roba cinese tipo gli involtini primavera... sarà cucina fusion le dico.
Ad ogni modo facciamo le nostre scelte, per forza di cose limitate, sicuri che se son così poche le portate saranno di qualità.
Siamo forti sul temaki mi aspetto di sentir dire all'uomo, ma niente.
Quello ogni tanto appare con due piatti, poi se ne va.
Il problema è che tutte le portate sono mediocri e con aggiunte decisamente nostrane che più che fusion sono puttanate.
Con la Dolce ci scambiamo occhiate ora preoccupate, ora divertite, perché sembra d'essere su Scherzi a Parte, anche se uno scherzo così lungo non s'è mai visto.
Il dolce invece è proprio italiano, una specie di tortino con zucchero a velo e uno sbroffo di cioccolato per traverso.
Mi punge vaghezza di irrompere in cucina per vedere chi è che commette queste infamate ma non lo faccio, giusto perchè, per riempire i momenti di vuoto tra una portata e l'altra, non essendoci NESSUNO oltre a noi, l'occhio vaga negli anfratti più lontani.
E dall'anfratto emerge pure questa



che prima m'era sfuggita perché mi stava alle spalle, dietro una tenda.
Un inciso per chiarire: le Laverda negli loro anni d'oro, come questa Jota 1000, erano le maxi più ambite, le moto dei veri uomini visto che per tirare la frizione ci voleva una mano da camallo e per tenerle in strada le palle di un toro.
Le giapponesi dell'epoca messe vicine sembravano dei timidi Ciao e un lucido blocco di quel monumentale motore lo vorrei volentieri a centro salotto, se non fossi certo che sfonderebbe il pavimento finendo giù dal vicino.
Schifato dall'immondo pasto prendo l'iniziativa e attacco bottone col filosofo sul tema.
Scopro subito, e ci voleva poco, che questo è presidente del Club Laverda, che oltre a quelle che sono lì ne ha altre cinque o sei in garage vicini, compresa una rarissima RGS Sfc 1000 così


 l'ultimo modello prodotto, a tiratura limitata, prima di chiudere la fabbrica a fine anni '80.
 A quel punto emotivamente io ho questo aspetto:


Mentre il bruciore anale si fa più intenso, cerco di guadagnare credito raccontandogli del mio antico 125 ma quello alza un sopracciglio e mi guarda come fossi una caccola di mosca dall'alto dei suoi 6000 c.c. complessivi.
Allora decido di finirla lì e metto mano al famoso buono sconto.
Quello fa apparire il foglietto con la cifra e io capisco che lo scherzo è arrivato alla fine e sta per uscire la troupe nascosta.
Invece non appare nessuno e rimane lì quella faccia di merda coi suoi riccioli, la sua panza e le sue Laverda e un conto a tre cifre.
Ovviamente l'inchiappettata maxima prevede la scoperta che il buono di Groupalia o Groupon non so non mi ricordo ma pari sono, serve a coprire parzialmente e ce ne andiamo quindi alleggeriti di una somma sufficiente per un altra cena giapponese (vera).

Me ne vado pesto di dentro e di fuori e col culo bruciante ma con una morale preziosissima che ancora porto con me (sperando che nel frattempo i NAS, la N'drangheta o le cavallette abbiano fatto chiudere quel posto): se ti piacciono le Laverda apri un ristorante giapponese e potrai permettertele.
Arigato.

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