domenica 14 agosto 2016

Resistenza ad oltranza

Il premier turco Tayyip Erdogan e il Direttore del Reparto Corse Mv Agusta Magni hanno in comune una caratteristica: la resistenza oltre ogni ragionevolezza.
L'uno, il turco,




dopo undici anni di governo, sta facendo a pezzi decenni di lavoro che Mustafà Kemal detto Ataturk spese per il proprio paese facendone un esempio di equilibrio tra culture e religioni, rendendolo un simbolo che è presente affisso ovunque ad Istanbul (Ataturk significa, "Padre della patria") e lo fa con la resistenza ad oltranza di un presidente democraticamente eletto, dice, ma che opera contro ogni rispetto per la persona, gli elementari diritti al dissenso, alla libertà di opinione persino con la persecuzione verso una minoranza, quella curda, fatta spesso passare per ciò che non è, un gruppo di terroristi pericolosi per la democrazia.

Ma non sono mica i media nostrani a spiegarci che lassù, nel lembo di territoio che si chiama Rojava e che nessuno conosce, essi lottano per resistere ed esistere e per dimostare che spessissimo gli attentati sono orchestrati proprio dal Governo per mettersi in posizione di forza, e in quanti hanno pensato e pensano lo stesso del golpe appena sfiorato, (una roba da operetta che rivaluta il nostro vecchio Junio Valerio Borghese....) che ha dato la possibilità di dar sfogo ad arresti a carrettate col sorriso gioioso e il cuore spumeggiante di un Tayyip mai così tronfio e sgomitante nello scacchiere politico mondiale?
Tornando a bomba, il Rojava è un'utopia stretta tra i confini della Turchia e della Siria, il  luogo dove un popolo reclama la sua indipendenza e dove si combatte (e moltissime sono donne, quindi musulmane, quindi giù un altro luogo comune sull'islamismo d'accatto che ci viene propinato come uno e monolitico), contro l'Isis e le sue puttanate religiose senza dire beh, e senza troppo clamore, dedicando una vita alla causa.
Tanto per dirlo una volta per tutte che non c'è nessuna nuova crociata in giro, i musulmani si ammazzano anche tra di loro che è un piacere, ma questo nessuno lo scrive.
Anzi sì, l'ha fatto, benissimo, uno che avrebbe potuto dedicarsi ad altro, perché già altro lo fa e lo fa bene: Zerocalcare con la sua testa a pera  e il suo Kobane Calling, graphic da leggere e rileggere per capire come vanno le cose, riservando alla stampa nazionale di approfondimento il ruolo di accenditore per la carbonella per Ferragosto.
Ne ripropongo la copertina, per gli sbadati:




Ma poi c'è Mr. Arturo Magni in tutta questa storia, l'aggancio ardito, che si merita, ovviamente, una foto ben più grande di quella di Erdogan.




L'uomo è purtroppo mancato qualche mese fa, ed ha rappresentato in modo specularmente inverso la resistenza ad oltranza che oggi è del Tayyip, profusa fino ad un certo punto con gli stessi metodi: competenza specifica, timone di comando stretto in pugno a guidare un manipolo di scherani, un obiettivo chiaro in mente con lo spettro della disfatta sempre davanti agli occhi.
Lui però non ammazzava nessuno, non inventava colpi di stato, non faceva sparire giornalisti, scrittori, opinionisti e pensatori.
No, lui si chiudeva nel reparto corse di Verghera di Samarate, e sperimentava come fare andare più forte una motocicletta da corsa, oltre i suoi limiti.
Fortunatamente non solo, ma col braccio armato dell'Ingegner Bocchi al tavolo da disegno, sommo conoscitore di sistemi di distribuzione veloci che in Giappone avrebbe avuto quindici lauree.
Come scritto nel post "Rogo", nel 1976 l'Mv Agusta, la marca motociclistica più prestigiosa e titolata del mondo vinse l'ultimo Gp con Agostini in sella.
Un ultimo, lancinante, canto del cigno, urlato dai suoi quattro scarichi a megafono.
Ma quella era una moto già congelata, era la massima evoluzione che risaliva all'annata precedente nella quale, comunque, era stata sconfitta.
Chi c'era dall'altra parte?
Il Pkk?
No, i giapponesi, che per certe cose sono ancora peggio.
I giapponesi, Suzuki e Yamaha, la Honda sarebbe arrivata un po' dopo, puntavano sul due tempi e a furia di botte tecnologiche, dischi rotanti e soprattutto le espansioni avevano stretto all'angolo il quattro tempi sia nella classe 350 che in quella regina, la 500, superandolo in potenza ma non ancora in guidabilità.
Magni decise allora di arroccarsi lì, al top, e dare tutto quello che poteva per resistere all'orda saladina:
tra il 1974 e il 1975 il motore della Mv 500 passò da tre a quattro cilindri, per cercare cavalli in alto, e attraverso progressivi step alla cilindrata piena di  498,6 cc, sempre bialbero, 4 valvole, raffreddato ad aria con un regime massimo di 14.000 giri.
In quella zona i cavalli ballavano tra i 98 e e 100... ancora troppo poco.
E allora, via i cerchi a raggi e su i primi a razze in lega leggera, su le prime semislick e poi slick pure con i megafoni che si debbono alzare per non strisciarli a terra in piega, coppia di freni a disco Scarab in luogo dei cavernosi fontana a tamburo, codino aerodinamico col ricciolo sollevato, vari tipi di telaio con inclinazione differente degli ammortizzatori.
Eccola, nella sua ultima evoluzione:




Macché, i due tempi vanno ancora un pelo di più... anche perché nel frattempo non stanno a guardare e si difendono essi stessi dalla furia disperata degli italiani che non ci stanno a beccare colpi di katana sul collo.
Poi finisce tutto di colpo, il Reparto Corse viene chiuso e la meravigliosa lotta di Arturo Magni cessa, quando in officina è pronto un mezzo completamente diverso, con motore quattro cilindri boxer che dalle prime botte al banco pare passi giù i cento cavalli in scioltezza.
Come sarebbe andata?
Probabilmente male comunque, alla lunga, vista la storia presa dalle competizioni, ma sarebbe stato bellissimo resistere, resistere e resistere.
Come andrà in Turchia?
Probabilmente nello stesso modo.

sabato 13 agosto 2016

Da piccolo facevo cose molto stupide...

Ma a ben pensarci, molto meno di quelle che faccio ora.
Una tra queste era disegnare i mostri spaziali.
Certo, tutto ciò è stato possibile solo dopo l'avvento di Goldrake nel '78, perché prima non c'era modo  (anzi sì, girava qualche film giapponese sulle private, di quelli con Godzilla, Gamera la tartaruga e tutto quel pantheon là), ma mancava il grosso della situazione, il magico.
Beh, che succedeva? Che io attendevo spasmodico la comparsa del mostro di ogni puntata armato di foglio e matita e in quei tre minuti scarsi di combattimento prima che l'eroe lo facesse saltare cercavo di riprodurlo meglio che potevo.
Sviluppando un certo acume avevo predisposto alcuni standard, per gli antropomorfi, gli insettoidi, i blobbosi, così da poter abbreviare il processo.
Poi stoccavo, infilando i miei file segreti stretti tra le enciclopedie che avevo in cameretta, perché volevo un archivio bello pressato e consultabile.
Unica controindicazione, spesso il senso ultimo dell'episodio andava perso, concentrato com'ero nel riprodurre il cattivone: apnea mentale per tre minuti = perché cazzo quello faceva quel che faceva?
Boh.
Non ho mai temuto di voler diventare segretaria in età adulta comunque, nonostante queste pratiche ordinatrici, anzi l'idea era quella del paleontologo per dissotterrare i dinosauri; poi per fortuna gli ormoni hanno cominciato ad aggiungere centimetri al pene e gli obbiettivi sono naturalmente cambiati.
Ma quanto mi piacerebbe riavere quei fasci di fogli abilmente vergati con gli ufo mostri, gli haniwa di Jeeg, i guerrieri di quell'altro.
E adesso li posso avere, in 3d!
Potenza della vita che non butta via mai niente, come su una nave se getti la spazzatura controvento: quella fa il giro delle murate e la buccia di banana finisce in faccia a qualcuno sul ponte.
Premessa drammatica: parlo di un'epoca, quella dei disegni, nella quale la riproducibilità era un concetto del tutto relativo.
La tv offriva uno e un solo passaggio di tutto, sembra incredibile detto ora che viviamo nell'esatto contrario, ma è così, ciò che andava perso era perso per sempre, e il dettaglio poco chiaro nessuno era in grado di svelartelo.
Era una rimozione continua, visto che i primi vcr erano ancora macchine fantascientifiche che forse esistevano in "America" (perché tutto doveva esistere laggiù "in America", dove in realtà viaggiavano su macchine sportive con le balestre.... che selvaggi del menga).
Comunque io, oggi, ho la possibilità di riavere in faccia tutte quelle bucce di banana; ci hanno messo quarant'anni a fare il giro dello scafo ma ora la Gazzetta (!) mi vende on line modellini dei mostri di Go Nagai alti una ventina di centimetri, che potrò finalmente osservare con tutta calma mentre metto su un dvd e studio l'episodio.
Anche le basi! Anche le basi!
Ne ho già individuati setto, otto imprescindibili, che cercai disperatamente di riprodurre rimanendo però senza una gamba, un occhio, uno scudo, mentre dentro mi si rompeva qualcosa (per la legge dell'irriproducibilità di cui prima).
Troverò la mia maturità di settenne a quarantasei!
Non è bello tutto ciò, non vi fa venire voglia di speranza nel futuro?

giovedì 11 agosto 2016

Non si può essere contemporanei per sempre

Ultimamente cominciavo a sentirmi così:


Si tratta della quarta di copertina di "Un Sedicesimo" (il nr.21 del 2011, ma sono tutti recuperabili o dal'editore stesso oppure in librerie specializzate tipo la 121 di via Savona, qui a Milano), il delizioso libriccino che Corraini Edizioni pubblica regolarmente.
Questo, bellissimo, di Toccafondo illustra il racconto, bellissimo, di Poe "I delitti della Rue Morgue".
Io, ovviamente qui sono lo scimmione.
Accadeva spesso ultimamente che mi ponevo domande riguardo la turpe vecchiezza che avanza fisicamente ma che non si manifesta parimenti mentalmente e mi fa pensare di trovarmi in quelle patetiche situazioni nelle quali fai lo sforzo per rimanere attaccatto ai ggiovani, nei modi di fare, di dire, di sentire anche se è chiaro che per loro sei altro.
Patetico appunto.
Il cruccio nasce tipico la mattina quando comincio a mettermi qua davanti a scrivere: cerco musica sul tubo e dov'è che mi vado ad incagliare?
Decennio, settanta, qualcosa ottanta, rarefacendomi via via verso i novanta ed oltre.
Attuale praticamente zero, piuttosto strumentali alla Sigur Ros, Arcade Fire o roba simile. Ma per poco.
Poi mi rimetto su Aladdin Sane, guardo quel fulmine sul volto e mi torna duro subito a sentire il piano sghembo di Mike Garson.
È un problema, penso.
Io amavo la moto, adesso i giovani no perché altrimenti si schianterebbero dovendo usare una mano per cercare Pokemon con lo smartphone.
Camilleri mi ha salvato giusto l'altro giorno da questo






Sì lui, il re dei tabagisti che scrive compulsivamente nonostante la veneranda età di uno e un solo personaggio sui libretti blu di Sellerio.
La frase è: -Non si può restare contemporanei per sempre. Quindi io mi fermo ai Beatles.
Taaac.
Era tutto lì, come sempre è del resto, solo che si guarda sempre altrove, e mi ha salvato la vita che mi resta.
Adesso infatti vado sul tubo e mi ascolto Transformer di Lou Reed (che dentro ci sia lo zampino del Duca è puramente soprammercato neh?), un disco glam che contiene perle vere.






fottendomene se Taylor Swift, Drake o Timberlake vendono un fantastilione di singoli ed io non conosco il ritornello dei loro singoli.
Non si può essere contemporanei per sempre, sarebbe anche ridicolo, e per molti lo è, quelli tesi all'inseguimento di qualcosa che tanto sfugge, non ci sono cazzi, e che qualcun altro ha ora, in questo preciso momento e a cui tu non hai più accesso, per credibilità, dignità, oppure solo, prosaicamente, età.
Ed è pure bello constatare che la faccenda è biunivoca, lui ha molto meno di quanto hai tu ora e non lo sa nemmeno... non ha ancora visto cose, non sa un cazzo di come funziona e di come verrà accartocciato dalla vita.
Per fortuna non faccio parte di quei patetici revisionisti per cui era tutto bello prima e tutto schifo ora, scordandosi, per ignoranza, fretta e ancora ignoranza che la gioventù fa ricordare bello tutto, anche la diarrea, e che il cervello, benedetto, ha una funzione meravigliosa che seleziona tutto lo schifo che anche allora c'era, cancellandolo.
E c'era.
Esattamente come ora.
Io non sono più contemporaneo, lo dichiaro e mi dimetto.
La Stratos sarà per sempre la più bella macchina mai prodotta, il sinistro di  Maradona e la volèè di McEnroe il gesto atletico più vellutato, il giro di qualifica di Senna l'estremo assoluto in fatto di puro avanzamento e lui, lui qui sotto



sempre molto meglio di questo deforme nipote mutato qua:



mercoledì 10 agosto 2016

Mordecai Richler

Ho appena finito di leggere questo, che l'autore scrisse nel 1980. Prestatomi da un amico e tutto scassato, con le alette sgarrupate, i segni di consunzione, letto con trasporto quindi, come spesso accade coi libri di Richler (oppure perché Adelphi fa carta di merda, ancorché supremamente snob ed elegante al tatto).



Adelphi con Richler ha cominciato  a sguazzarci nel 2001 pubblicando invece questo, che è celeberrimo, ha venduto  e vende ancora anche da noi e dal quale hanno tratto anche il canonico film




L'imbarazzo un po' parte dalle date, ovvio, quello sopra ha diciassette anni meno, però ha anche una cosa che manca e che forse, forse, perché lo dico senza avere lo straccio di un dato di vendita mondiale dei due, ma solo epidermica e fallibile opinione, la magia dell'intuizione.
Oh, Richler scrive bene sia detto, uno di quegli autori che compongono per strati di magma che vanno sovrapponendosi lenti e implacabili a tratteggiare il quadro, con flashback apparentemente caotici dei quali va a riannodare i fili apparentemente a caso durante il viaggio, ellittico, sovrabbondante di aggettivi che per i mie gusti potrebbero togliere almeno cento pagine dai balenotteri da cinque seicento pagine che scriveva.
Ma questo è affar mio, lui era Richler, vendeva e il suo editor lasciava fare, avranno ragione loro finché non farò altrettanto.
Eppoi, essendo ebreo canadese non si esce da questo continuo giochino dell'ebreo che è sempre un po' più di tutti gli altri, chissà perché, che beve a rotta di collo, sempre ubriachi tutti quanti visto che a briscola non gioca mai nessuno in alternativa, ed altre piccole perle che si ritrovano immancabilmente (ah, sì, corna, divorzi, fughe qua e là per il mondo).
Comunque, dicevo, in Barney c'è quella cosa che me l'ha fatto amare, quel ritrovamento, la spiegazione della scomparsa dell'amico Boogie fatta con un vero colpo di genio, la presa accidentale del Canadair dal lago: per me quel romanzo gira a trottola attorno a quel perno fantastico.
In Joshua non c'è, magari il gusto weird gli è venuto nei vent'anni successivi, chissà, e poi per lo sforzo c'è morto, visto che la dipartita (2001) ha seguito di poco la pubblicazione (1997).
Se gradite Richler dopo Barney, date senz'altro una sbirciata al suo vecchio predecessore Joshua, vi ci ritroverete come  dentro quella vecchia felpa ritrovata in fondo all'armadio, tanto comoda, che però, strano, rispetto a come la ricordavate manca di una manica...
Ma tanto, sotto all'ombrellone c'è chi legge persino Moccia, quindi potete fare lo sforzo di alzarvi di almeno di un metro sopra il cielo?
Stronzi ( inteso a chi c'è già sotto l'ombrellone. Io mi sparo radioterapia per il momento.Ah, ah...).

martedì 9 agosto 2016

Giudicare.

"Chi sei tu per giudicare?".
Dai, adesso ditemi quante volte qualcuno vi ha rivolto la frase, ritenendola una di quelle definitive,  cassatorie di qualsiasi replica.
Beh, sappiate che le armi per difendervi ci sono e il latore della cosa un/una pirla che non ragiona.
Il giudizio è intrinseco al mio essere componente la razza umana, sta nell'elica del mio DNA.
L'uomo giudica, sempre, da sempre, senza possibilità di fare altro perché è questa la caratteristica che lo separa nettamente dal resto del mondo animale che viaggia per istinto puro.
Io ti giudico, eccome, sempre, in ogni momento, con pieno diritto naturale.
E tu, ipocrita, fai lo stesso, furbino...
Detto questo, adesso mi metto a citare pure Pasolini ed il suo "io so", l'inizio del pezzo sulla sua rubrica giornalistica (e che ritrovate qui se volete, negli "Scritti Corsari" che quegli interventi illuminanti, pedanti e corrosivi raccolgono) che per qualcuno ha segnato l'inizio del pestaggio fatale del Lido di Ostia nel 1975.






Io giudico e so il nome dei mandanti, ma per supremo orrore non li citerò, non gli farò questo favore, perché essi, dopo quarant'anni, con un estremo scossone mi hanno disarcionato dalla Marvel Comics e, quel che è peggio, mi hanno strappato da Peter Parker.
Per farlo si sono inventati una puttanata chiamata Battleworld, un caotico puzzle, un pianeta nato chissà sotto quali spinte (arcane dicono quando non sanno che cazzo inventarsi) ricomposto con i pezzi dei crossover più letti degli ultimi dieci, ven'tanni? delle varie testate.
AAAAAAAAAAAHHHHHHHHHH! Bestie.
Questa è la versione che ne forniscono di 'sto pastrocchio, sorridenti come una manica di stronzi felici immagino, coi loro bicchieroni di carta pieni di sciacquatura di caffè:



È che sono vecchio, questa la verità.
Ho iniziato a sei anni con una storia di Cap che correva con Falcon sotto la pioggia e che a malapena riuscivo a leggere perché stavo alla fase punto e virgola in prima elementare.
Leggiucchiavo la Dc , che allora pubblicava la Cenisio, perché ha sempre avuto quella vena fantastica più bambina, finché Stan Lee non ha cominciato a farle il culo con gente urbana con problemi urbani.
E per me tutto si risolve in questa copertina, del grande Romita Sr., quello del ciclo storico di Goblin, della morte di Gwen Stacy, arte signori, arte pop del secolo scorso.
Questa è stata la mia Marvel, il mio quarantennio Marvel:




 Qui comincia L'Uomo Ragno per me, no spiderman come usa ora, L'Uomo Ragno, uno che per tutta l'infanzia mi costringeva a raccogliere ragni ovunque, mettermeli in mano e sperare mi mordessero.
Ed ora Battleworld, un modo lecito, commercialmente ineccepibile per una multinazionale di svecchiare un parco lettori sfruttato e di aprirsi a nuovi spazi potenzialmente vergini e remunerativi, spinti dagli incassi della divisione cinematografica che pompa milioni ad ogni uscita.
Ci sta perfettamente, ma io il Peter di adesso, ridotto ad un clone sfigo di Tony Stark non lo accetterò mai e così, due mesi fa ho preso la fatale decisione: addio.
Mi rimane un locale stipato da migliaia di fumetti in buono stato che un giorno forse rivenderò o forse vorrò a ricoprire le mie spoglie mortali nella cassa che verà sotterrata, ve lo anticipo, nei terreni attigui alla Seconda di Lesmo di Monza.
E comunque, americanucoli, sappiatelo: - Io so, e vi giudico.

lunedì 8 agosto 2016

Rogo

La parola rogo ha cominciato ad impressionarmi il primo agosto del 1976.
Quel pomeriggio lì, verso le 14,30 un ragazzo austriaco, Niki Lauda, campione del mondo ed idolo di tutti i ragazzini italiani, perdeva la sua Ferrari per un fatale attimo alla piega del Bergwerk e si spetasciava contro la montagna, sul al Nurburgring, l'inferno verde.
In un attimo l'inferno diventò rosso, la Ferrari si sa, rimbalzò qua e là avvolta, appunto, in un rogo.
Chi lo salvò lo sappiamo, cosa perse (un orecchio e un metro quadro di faccia, anche, quel che guadagnò come immagine di superuomo e il lancio che la Formula 1 ancora gli deve oggi è incalcolabile).
Tra l'altro in quel '76 quella pista aprì e chiuse il mese di agosto con due avvenimenti storici ed indimenticabili: questa, drammatica e l'altra, il 29, per certi versi anche: l'ultima vittoria nel Mondiale 500 della gloriosa Mv Agusta guidata da Agostini (qui sulla 350, la foto della 500 quattro vincitrice non l'ho trovata, ma a parte le tabelle gialle ed uno scarico in più era uguale).




Unica quattro tempi davanti ad una muta di Suzuki Gamma e Yamaha Yz 2t, anche lui all'ultima affermazione in carriera.
Tutto lassù, tra le mille pieghe da paura di quella pista eterna e spietata.
Ma torniamo al rogo.
All'epoca Niki Lauda era dio.
La Polistil vendeva a pacchi il modello della sua monoposto, con la chiavetta per smontare pure le ruote, questa qui, che io avevo, al pari della M23 di Hunt e della P34 di Depailler.




Beh, ci crediate o no, in quegli anni lì l'idea di scrivere il nome del pilota in grande ed in corsivo lo trovo ancora di grandissima eleganza, dovrebbero riproporlo a Maranello, ed è lì che gira tutto il problema.
Quando rombavo per la mia stanzetta con il modellino, l'occhio cadeva su quel corsivo,  Niki Lauda, il pilota più veloce del mondo, il computer, seguito a debita distanza da Clay coi suoi baffi, in corsivo pure lui.
Quel giorno però, nel rogo, quel corsivo andò in fumo ed io ne rimasi scioccato.
Non ricordo se stessi vedendo la diretta, ma ricordo come fosse ieri le immagini serali del telegiornale, un carro attrezzi che senza nessun rispetto caricava i rottami anneriti della Ferrari, e quel corsivo, Niki Lauda bruciacchiato, perso, sconfitto dal fuoco.
Dal rogo.
La vera grande sfiga di Niki all'epoca si chiamò Agv in realtà.
Lauda, Fittipaldi e qualcun altro indossavano quell'anno il futuribile X1 dell'azienda italiana (combinazione, la stessa marca che indossava Ago ventotto giorni dopo, guarda tu la coincidenza).
Eccolo qui, in una riproduzione attuale che su ebay costicchia:



Il bell'elmetto con tutto il suo sistema di ventilazione venne scalzato nell'urto, e lo ritrovarono poi in condizioni un po' differenti, dalle parti dei rottami...



 In quel momento Lauda si ritrovò per un minuto con solo il sottocasco a proteggerlo, senza casco e senza il tubo dell'aria per evitare di inalare i fumi della combustione e quasi si ammazzò.
Magari con un cinturino progettato meglio, avrebbe ancora capelli ed orecchie, anzi è certo, perché sul corpo riportò pochissime ustioni di risibile importanza.
E quindi, ancora oggi rogo mi rumina dentro male, è una parola che odio, e che in quegli anni si è portata via parecchia gente impegnata a fare cose belle con le macchinine rumorose.
E quella scritta poi, quel corsivo annerito che rischiava di uccidere l'eroe della mia infanzia.
Dopo quarant'anni sono ancora qui a ricordarmelo.





C'è vita su Morte?


Dai lo so, il titolo fa schifo e David si gira nella tomba (anzi no, l'han cremato), però vi voglio raccontare delle cose che poi chiariranno e magari il titolo diventerà un classico.
La mia nota malattia comincia a fare scherzacci inaspettati, tipo che ha cambiato scopo è si è insinuata tra ossa e cervello dopo aver rotto la minchia ad intestino e polmoni, perdendo ridicolmente il confronto.
Parato il colpo subito, per quanto riguarda le vertebre, anche se ho perso l'uso delle gambe per tre o quattro agghiaccianti giorni, prima di operarmi e tornare a sgambettare belluino, è stata la lesioncina rilevata al cervello a farmi riflettere.
Un chicco di riso infilato nel profondo dell'emisfero destro, dormiente, ticchettante, tipo cintura esplosiva dell'Isis pronta ma ancora senza detonatore.
Per la prima volta ho avuto paura, vera paura di morire.
Morire, morire neh, cioè quando dici buonanotte e la sveglia poi non la senti più.
Però una bella laserata one-shot ha risolto subito anche quello ed ora sto bene.
Anzi, sto benissimo.
Sto sperimentando davvero quel tristissimo (ma vero) adagio che dice che quanto più vedi la morte nelle vuote orbite tanto più apprezzi di vivere!
Infatti sono entrato in un periodo euforico come mai prima, sto producendo con qualità e abbondanza e la cosa ancora non si ferma.
Mi sveglio persino alle otto e già picchietto sui tasti pensando a cosa inventarmi.
Intanto ho completato l'ultima tessera della mia trilogia milanese che Eclissi editrice pubblicherà penso per Natale e che avrà titolo "Il triangolo quadrato", nella quale ci sarà anche un coccodrillo, poi ho impostato due libri grafici con e per le fatate manine della Dolce, "Il catalogone delle arrabbiature", una specie di Postalmarket infantile, una roba che vorrei i bambini usassero male, sbatacchiandola qua e là perché con copertina in cartoncino, poi un progetto per case francesi che tanto ci lodano ma che ancora non firmano, poi la storia di un uovo che si chiama Ovonzio, poi un manoscritto di fantascienza che ha in mano un agente in cui mi sono inventato la Trasmissione Schumann come futuro delle comunicazioni cerebrali connesse ( e che mi parla di due possibili contratti com medi editori), poi una serie di articoli preparati per propormi alla redazione di un giornale fighetto motoristico quale collaboratore esterno (ziocane, ho o non ho detenuto i record della pista a Monza (2 volte, miei cari....), al Mugello e a Misano quando i capelli non erano bianchi? Sì che l'ho!).
Fallirà tutto?
Possibile, chi lo sa, e soprattutto chi se ne frega?
Fare, fare, fare, questa è l'unica missione in questa vita breve, merdosa e di assoluto passaggio, sennò ci si rompono le palle.
Fortuna vuole non abbia optato per bambini scassacazzi e mangiavita e quindi ho un mare sconfinato di burrose possibilità davanti, grosse porte di mogano che mi si chiuderanno sul muso sfigurandomi ma anche pertugi dai quali magari passerò di giustezza.
E poi voglio la moto porca troia, perché il mio vecchio St 955 rubato ancora mi fa piangere e scaracchiare nel fazzoletto.
Uno dei misteri dell'universo, mai un suo pezzo apparso sui canali internet, e alcuni li avevo modificati in maniera evidentemente riconoscibile, mai niente di niente su tutta la rete, una moto che esiste in tre esemplari in Italia, che nessuno si caga, sparita, puff, senza un motivo apparente.
Adeso però, dopo una forte infatuazione per la Ducati Scrambler (gialla!), che quei puttani bolognesi ti vendono però a peso d'oro, sto pensando di rimanere fedele al tre, che suona come niente altro se debitamente lasciato cantare, una Street triple 675, prima versione fari tondi, al momento con 3500 ce la si accaparra ( e sono ancora il doppio di quel che potrei stanziare, ma vabbè) tutta wrappata, una bella pellicola sul serbatoio, con qualche motivo che mi aggradi, uno scarico basso, due dita sulla frizione e via a sgommare in faccia al cancro del cazzo.
Pensavo ad una cosa così, è abbastanza farabutta?
Io toglierei il monoposto, che costa, lo spoiler, che costa, il cupolino, che costa, ma mi terrei l'Arrow Low Boy che vedete montato lì sotto e poi la wrappizzo a rigoni, o a fiori hawayani, tipo l'Aprilia 250 di Valentino di secoli fa




Vedrai se poi la malattia non si leva dai coglioni.
Qui sotto invece il wrapping lo fanno per i ricchi, quel pessimo di Lapo Elkann, gran maestro di stile però, che sta avendo la bellissima idea di far riqualificare la splendida stazione Agip di Piazzale Accursio da De Lucchi, questa sotto, impiantandoci una società che si chiama Italia Custom o roba simile e tratta barche, moto, aerei allo stesso modo.



E poi l'integrazione.
Che maroni leggere banalità continue, questo sì che mi scoraggia, perché la gente reitera nella stupidità, banalizzando il pensiero senza approfondire mai una sega.
C'è un quartiere di Milano, che per la cronaca, come città, sta rinascendo su bene devo dire, riempiendo lentamente spazi abbandonati da decenni con cura e idee, che si chiama San Siro.
Da una parte la zona delle ville nobili, gente che il 675 wrappizzato ce l'ha già, contiguo al quadrilatero di case popolari sorte nel dopoguerrra per ficcarvi gli sfollati e che nei decenni sono diventate molte cose, tutte brutte e degradanti e che ora sono una succursale di Islamabad.
E si parla di integrazione, che manca, che serve...
Lo dico subito e lo dico chiaro: L'INTEGRAZIONE NON ESISTE E MAI ESISTERA'.
La società umana è composta da individui, lo dice la parola, unici ed inintegrabili.
Accoppiabili, sì, affini forse, ma non integrabili.
Per quello esistono, in ogni nazione civile, le leggi.
Tu vieni qui col velo, senza velo, col sandalo con quel che vuoi, però segui i cartelli e fai la differenziata, parcheggi dove devi, non pisci sulle auto in sosta.... segui ciò che la legge prescrive e in Italia ce n'è una per ogni minchiata, e sei a posto (tipo togliere i crocifissi da scuole e ospedali ad esempio, che sono lì abusivamente, costituzionalmente parlando, non perché lo dice un muslim).
Semplice.
Si tratta di adeguamento, non sconfitta, non integrazione e i problemi spariscono.
Se poi la donna velata viene a chiedervi la farina perché l'ha finita tanto meglio, ma è un dettaglio insignificante, non è un kibbutz quello che dobbiamo edificare ma una società civile.
Il problema semmai è che si vigili sul rispetto delle regole e qui, ahi ahi, qui sì che siamo italioti del menga.
Detto questo, al momento, nel temuto quadrilatero arabo stretto tra le vie Preneste, Tracia, Civitali si spaccia garruli come in tutta la città, come sempre è successo nei secoli dei secoli, ma le uniche bombe che tirano sono quelle da tre punti nel campetto (bello e riqualificato) di Piazza Selinunte.
E sapete perché?
Perché nel rettangolo tutti rispettano le stesse regole.
Bye bye.