giovedì 18 dicembre 2014

Melotti e Marzal



Se c'è un filo che lega Fausto Melotti a Marcello Gandini, questo è sicuramente fatto di lucido metallo.
Il primo, dopo una laurea in ingegneria e studi musicali, attraverso un processo creativo passato attraverso ceramiche e gessi, sintetizzò alla soglia dei settant'anni un pensiero artistico spogliato di ogni fronzolo inutile, sculture esili, vibranti di fili metallici, sottili piastrine e garzine svolazzanti.
Oggetti fatti di suono cristallizzato sull'ultima frequenza udibile dall'orecchio umano prima di sparire.
Una magia che riesce solo ai Maestri.
Questo almeno è l'effetto che la sua robina ha sempre avuto su di me.
Verificate:










Il fatto che fosse stato anche, insieme al suo amico Fontana, allievo del sommo Adolfo Wildt (di cui ho parlato nel post"Fumetti di marmo", non fa che farne lievitare la sagoma, tipo quei soufflè che nel forno promettono godimento nel breve periodo.
Stavo giusto titillandomi con un paio di foto da un libro dedicatogli che un pensiero mi assaliva: Marzal!
Lì dentro c'è lo stesso seme che ha generato la Lamborghini Marzal.
Che è quest'oggetto qui:




Gandini la disegna nel 1967 per Bertone, presso cui lavora.
Sotto il cofano sistemano un duemila a sei cilindri, ottenuto segando in due il dodici quattromila della Miura.
Ne allestiscono una su cui poggiano le regali chiappe i Grimaldi prima del Gp di Monaco di quell'anno, tanto per fare gli sboroni.
Piace.
Non entrerà mai in produzione, ma le sue linee ispireranno l'Espada, un barcone a dodici cilindri che la Lamborghini venderà negli anni settanta ai panzoni danarosi.
Ecco, io nelle linee tese della Marzal ci vedo Melotti, ci vedo quel bisogno di ridurre a pure linee di forza la struttura, togliendo tutto il superfluo: fiancata vetrata, selleria cromata, superfici trasparenti pari a quelle lamierate.
Togliere è aggiungere.
Aerea, leggiadra eppure così intensa: non vibra alla stessa frequenza delle opere di Melotti?
L'unico esemplare è stato ceduto dalla Bertone in bolletta per più di un milione e duecentomila euro, ad un'asta nel 2011.
Le quotazioni dei mobile di Melotti non le conosco ma siamo lì.
Ma questa è un'affinità solo per i rozzi dalle scarpe grosse.

Giacchè mi rivolgo invece a fini dicitori, perchè così immagino i "quater gatt" che visitano il blog, regalo una vecchia perla scritta nel 2003 o giù di lì, dal titolo "Corso di Batman".
Leggetelo, fa ridere.
Il racconto mi ha fruttato venti euro perchè pubblicata in formato e-reader sulla rete da qualcuno che non ricordo bene e che potrebbe denunciarmi per diffusione non autorizzata.
Vedremo, per me non se ne accorgeranno...



CORSO DI BATMAN (2003, circa)



Tutto era cominciato con un manifesto 35x50 nastrato sul vetro del bar.
"Corso di Barman", diceva e poi "numero chiuso, rilascio attestato" ma soprattutto "lauti guadagni" e "possibilità di carriera" scritto più piccolo ma ben visibile, concetti che mi avevano convinto a considerare al tramonto il mio status di disoccupato.
" 22 marzo - via Tiraboschi, 22 - ore 19,00 - primo piano", stava scritto sul fondo del volantino ed io puntuale nel giorno, preciso nell'ora, eccomi davanti al sobrio edificio in stile con i migliori propositi di miscelazione alcoolica.
Il civico fuori non c'era, però il portone prima era il 20, l'avevo visto, quindi non si sbagliava.
Mi spiegheranno come si riempie un mixer o come scegliere il bicchiere adatto, pensavo tra me e me salendo gli scalini.
Al primo piano una lucida targa d'ottone mi informava che dietro quella porta, l'Istituto SASN era regolarmente certificato Iso.
Mi sfuggiva il significato dell'acronimo però, nessuna "B" di bar, barman o simili dentro.
- Buonasera. E' qui per il corso?"
Una occhialuta fanciulla mi aveva accolto da dietro il banco della piccola reception, sul cartellino appuntato alla camicetta c'era scritto Barbara Gordon.
Sarà "Gordòn", è veneta probabilmente, pensai.
- Sì, esatto... Barbara. Il corso di barman. Ho letto un vostro volantino.
Mi aveva guardato con un sopracciglio sollevato: - ... di Batman.
Avevo riso giusto per galanteria a quella che mi pareva una battuta cretina.
- Certo.
- Prego. Faccio strada.
Si era staccata dal banco e mi aveva condotto lungo un corridoio poco illuminato, fino ad una stanza che si apriva sulla destra, nella quale stavano una decina di sedie allineate, una cattedra ed una lavagna, d'angolo.
Non entravo in quella che poteva dirsi l'aula di una scuola da almeno tredici anni, dalla sofferta maturità raggiunta più per grazia ricevuta che per acculturamento reale.
- Compili il modulo di accettazione. Lo ritirerò tra cinque minuti. Il professore inizierà la lezione a momenti.
Il modulo richiedeva dati personali ed informazioni generiche.
Solo non avevo capito cosa interessase alla scuola il sapere se soffrivo di vertigini e se avessi paura del buio, e men che meno quale taglia di mantello portassi...
I miei compagni di classe, sei in tutto, parevano molto tranquilli.
La ragazza era tornata a riprendersi il foglio e mi aveva sorriso, poi si era voltata per tornare di là, dandomi modo di fantasticare sul suo minuto fondoschiena.
Un fruscio alle spalle mi distrasse dagli sconci pensieri.
Il professore aveva preso posto davanti alla lavagna, scivolando in modo scandalosamente silenzioso lungo la parete alla mia sinistra.
- Buonasera signori.
- Buonasera - avevamo risposto in coro come una brava classe di alunni elementari.
Il professore era un uomo sulla sessantina con candidi capelli elegantemente pettinati all'indietro e due spalle da camallo.
Vestiva un completo nero con una spilla dorata sul risvolto della giacca. 
Aveva un accento chiaramente inglese.
- Questa è la prima lezione del corso che, come già sapete, si articolerà su tre incontri settimanali più un laboratorio di tre ore a cadenza quindicinale. Quella parte didattica verrà svolta nella sede distaccata che l'Istituto SASN ha in una palestra attrezzata.
La voce profonda non ammetteva distrazioni, anzi, non le permetteva.
- In una palestra? - pensai - Forse per preparare i cocktails vogliono braccia allenate, muscolose... boh. Ci mancano solo le flessioni.
Era seguito un breve appello, poi, uno ad uno, eravamo stati invitati ad alzarci e ad esporre le motivazioni che ci avevano portati lì.
- Beh, salve a tutti - era il mio turno e non avevo mai gradito parlare in pubblico - sono qui perché ho creduto, e credo - m'affrettai ad aggiungere - che una solida e seria formazione in questa professione possa servire agli altri prima ancora che a noi.
Il professore aveva annuito con partecipazione, poi s'era alzato e aveva raggiunto nuovamente la lavagna.
- La prima lezione verterà sul camuffamento, la parte cosiddetta "stealth" : ricordatevi che il successo dell'azione stessa dipende dai primi istanti. Una buona formazione di base può davvero salvare la vita, agli altri prima che a voi. 
E si era voltato a guardarmi mentre finiva la frase.
Mi ero sentito orgoglioso di aver fatto una buona impressione, tuttavia non riuscivo a capire a cosa servisse 'sto camuffamento mentre servivo un daiquiri: forse durante situazioni particolari, tipo una festa o a carnevale.  
- Per questo esercizio avremo a disposizione la ricostruzione di una banca. La situazione prevede sei rapinatori armati disposti nei punti da A ad F indicati sulla lavagna - e vi aveva battuto sopra con una bacchetta - due ostaggi a terra ed uno a fare da scudo al rapinatore D. Cinque minuti come limite massimo. Attrezzatura utilizzabile nello spazio ristretto: bat-a-rang e cortina fumogena.
Forse avevo capito male: rapinatori?
Il bat-a-rang poteva essere una variante del Negroni, anzi no, forse del Bloody Mary, ma la cortina fumogena a che doveva servire?
Aveva detto banca, mica discoteca.
Si era avvicinato a noi studenti e avevo potuto vedere cosa fosse quella spilla che luccicava sul tessuto nero: era un pipistrello stilizzato.
Mi ero voltato in giro, un po' smarrito a cercare sostegno nei miei colleghi, ma quelli stavano tutti composti, a prendere appunti, senza manifestare sorpresa.
Mi ero sentito battere sulla spalla: era il mio compagno della fila dietro.
- Va là, io avrei aperto con una carica di bat-dinamite, poi la cortina fumogena e poi il bat-a-rang. Tu che dici?
- Che dico... eh, io non sarei così drastico... insomma... mhh, magari starei calmo all'inizio. Bat-calmo!
Non so perché l'avevo detto, forse per sentirmi parte del giro, ma quello non si era stupito ed era tornato a scrivere ridacchiando sommessamente.
Evidentemente la maggior parte di loro già conoscevano la lista dei cocktails, partivo male.
All'intervallo mi ero alzato ed ero corso dalla ragazza alla reception, dopo essermi sentito spiegare dal professore quale nervo premere per indurre lo svenimento e la perdita di memoria temporanea.   
- Senta signorina Gordòn, mi scusi...
- Gordon.
- Ah, pensavo fosse un cognome veneto...
- Oh no, sono di Gotham.
- Ah, non conosco... volevo chiedere, ma questo che corso di barman è? Non ci sto capendo niente. Si tratta di un corso avanzato per caso?
La ragazza aveva aggrottato la fronte.
- Guardi che i corsi di barman sono al numero 22.
- Ma non è questo è il 22? 
- No, questo civico non ha numero per riservatezza. Il 22 è al portone successivo. Qui c'è il SASN, l'ha letto fuori, no?
- SASN. Sì, l'ho letto e allora?
- Società Addestramento Supereroi Notturni, questo è il corso di batman, glielo avevo detto quando è arrivato. Credevo lo sapesse.
- Come? Di Batman dice?
Una mano mi si era appoggiata alla spalla: pesava almeno due chili.
- Professor Wayne, il ragazzo qui ha sbagliato indirizzo.
Mi ero voltato trovandomi faccia a faccia col professore.
- Ragazzo, capisco che tu possa trovarti in difficoltà, sono argomenti complessi. Però nei tuoi occhi ho visto la nobiltà, l' abnegazione. Non mi sbaglio mai, tu puoi fare molto per il tuo prossimo. Molto più qui da noi che non al 22, alla scuola per barman.
Tentennavo.
- Preferisci uno spruzzato o proteggere l'umanità dal crimine? Non credo di essermi sbagliato sul tuo conto.
Come dargli torto? In fondo anche quello del supereroe è un mestiere onesto.
- Vabbè, magari ci provo...
- Bravo.
Cercavo di immaginare la faccia di mio padre quando mi sarei presentato a casa con un bel diploma da Batman.
Ero tornato in aula.
Dalla terza ora c'erano "nozioni di sbandata con la batmobile".
Bene.
Questa è la mia storia.
Anche oggi sono convinto che non è stato un caso notare quel volantino sulla porta.
E ne sono contento, comunque.
Mi sono diplomato a pieni voti ed ora copro la zona sud-ovest della città.
Ho la batmobile aziendale e ticket pasto, un buon fisso più una serie di benefit legati al numero di malviventi arrestati.
Cioè, c'è un coefficiente da moltiplicare alla cattura, a seconda che sia uno stupro, una rapina o una tentata strage.
Insomma sono felice.
L'unico problema rimane quello di convincere mia madre che maschera e mantello vanno lavati a secco, perché altrimenti stingono.

mercoledì 17 dicembre 2014

Essere una fermata d'autobus

Ho cominciato a scrivere con assiduità più o meno undici o dodici anni fa, grazie ad alcuni siti che permettevano il pubblico ludibrio dei pezzi proposti.
Liberodiscrivere e Scritturafresca sono i primi che mi vengono in mente.
La faccenda si presentava così: l'autore postava il suo parto letterario, in forma di racconto per motivi pratici di fruizione, poi attendeva con apprensione i giudizi del pubblico.
Mi ricordo con quale soddisfazione vedevo arrivare le singole notifiche di commento ricevuto, anche perchè erano generalmente positive.
Il mio antico spirito competitivo aveva trovato un nuovo campo d'azione nella corsa all'accumulo dei punti e relativa salita nelle classifiche di gradimento dei siti.
Un paio di pezzi erano poi riusciti ad uscire da lì ed a infilarsi in un libro vero, cartaceo dico, il che mi aveva gonfiato come un pallone ad elio.
Vabbè, preambolo nostalgico terminato.
Vado a proporre uno di quei pezzi là, scritto nel 2003, ripescato da una cartella sommersa nel computer e messo qui a sgocciolare lentamente.
Si intitola "Essere una fermata d'autobus"e mi pare di averlo scritto mosso dall'esigenza specifica di abbindolare gli utenti, che si dimostravano più attenti alle introspezioni ed alle storie cerebrali piuttosto che agli spargimenti di sangue.
Regola numero uno: capire cosa vuole il pubblico, indi cogitare.
Sale e pepe q.b. poi scrivere.
Non lo faceva Proust probabilmente, infatti morì barbone, lo fa la Rowlings invece, infatti cià le Rolls.

L'importante non è essere, ma farlo credere (triste ma vera verità).

Comunque, eccovi:


ESSERE UNA FERMATA D'AUTOBUS 


Sono isola, sono approdo, sono tronco d'albero che galleggia su di un fiume di cemento, sono quattro pali di ferro e lastre di vetro sporco, caldo o freddo io sto lì, non posso fare altro.
Sono una fermata d'autobus.
Poteva andarmi peggio in fondo: conosco alcune fermate di metropolitana che non hanno mai visto il sole di una giornata di maggio, ad esempio, sempre là sotto nella penombra e nel silenzio.
Non è molto, lo so, ma per me è già qualcosa e me lo tengo stretto.
Da anni svolgo il mio compito con professionalità.
Ho il mio palo arancione con l'orario e il percorso del bus e una bella pubblicità che mi cambiano mensilmente; è un po' pisciato, ma è colorato e rallegra l'ambiente.
Sono fiera del mio cartello pubblicitario, voglio che chi mi vede pensi di me che anch'io ho una dignità, uno scopo ed un posto rispettabile nella società, perché io accolgo gente, notte e giorno, la guardo aspettare, poi salire e scendere, senza fermarsi mai, senza poterla fermare mai.
Tutti i giorni, anche i festivi.
Alle volte cerco di farmi sentire, di iniziare un discorso ma quelli sono troppo presi dalle loro corse, dalle loro cose.
Viaggiano verso il capolinea, sperando che il bus non sia in ritardo, credendo di trovare qualcosa di nuovo ad aspettarli invece delle solite fermate che conoscono ormai a memoria. 
Alle mie spalle c'è un ristorante cinese.
Era già lì quando sono arrivata, qualche anno fa.
La signora, credo la proprietaria, esce ogni mattina e lava i vetri e lo fa con una professionalità direi pari alla mia.
Tutti i giorni, anche i festivi.
Si vede che il ristorante per lei è qualcosa, e se lo tiene stretto.
Un giorno, una mattina, la signora non è uscita a lavare i vetri.
Si è seduta qui, sotto la mia pensilina, e si è messa a guardare per un po' la gente che saliva e scendeva, senza fermarsi mai.
Nessuno ci ha fatto caso, tutti presi dalle proprie cose, ma la signora piangeva.
Avrei voluto dire, fare qualcosa, ma che volete, sono solo una fermata d'autobus.
Chissà per quale motivo piangeva.
Non l'ho  vista nemmeno la mattina dopo pulire la vetrina del ristorante, e nemmeno le mattine successive.
Il locale poi è stato chiuso qualche mese più tardi, mi pare fosse il periodo in cui sfoggiavo quel bel cartello pubblicitario della compagnia assicurativa.
Ero più fiera del solito con quella pubblicità, bei colori, belle persone raffigurate, sorridenti e felici.
A ben pensarci gente del genere io l'ho vista solo nelle pubblicità, mai nessuno che passasse sotto il mio tetto con quell'aria distesa, quel sorriso ostentato.
La vetrina del ristorante invece non l'ha più pulita nessuno, tanto che poi, giorno dopo giorno, è andata coprendosi di una brutta patina grigiastra.
Mi dà un po' fastidio questa immagine poco curata perché io ci tengo al decoro del mio tratto di marciapiede, ci mancherebbe.
Cosa penserebbe di me la gente se mi vedesse nelle stesse condizioni?
Sì d'accordo, sono presa di mira dai cani e dagli ubriachi, la notte, ma complessivamente cerco di mantenermi.
Poi a ben guardare, ed io di tempo per farlo ne ho a sufficienza, ho notato che quello strato di grigio polveroso lo conoscevo già.
Lo vedo da anni, avvolgere la gente che transita sotto i miei quattro pali di ferro.
Soprattutto vedo tanti, troppi occhi che non cercano altri occhi, che non vogliono o non possono vedere.
Mah, che volete, mi sbaglierò.
Dopotutto sono solo una fermata d'autobus.
Come voi.



lunedì 8 dicembre 2014

L'immane succhiotto


Postassi fumetti o vignette alzerei più visite sul blog.
Il fumetto ha la dimensione ideale per questo media, lo riempie di giustezza senza distrarre e, se fatto bene, genera spontanee condivisioni, like, cazziemazzi social.
e son tutti contenti.
Ma io non faccio fumetti, scrivo.
Quindi ci metto quel che ho, e quel che ho qui è un racconto che nel 2006 mi venne pubblicato da Liberodiscrivere nella raccolta "I contorsionisti".
Gratis, ovvio.
Così altrettanto gratis vi presento:


L'IMMANE SUCCHIOTTO

Superato il casello la manò calò sulla patta del mio jeans.
Lei mi guardava con occhi lascivi, intorno a noi solo il fruscio del vento e Settimo Torinese, ad uscire, via verso Milano, poi, fra un'ora, si vedrà.
Fingo indifferenza, guardo il traffico, ma il turgore si manifesta subdolo.
La mano fruga, preme, indaga.
L'idea non mi dispiace.
Poi la strada che scorre sotto, sobbalzi e rappezzi, cantieri eternamente aperti e la sera che incombe lenta, ché è quasi estate.
Mi guarda morsicandosi il labbro: c'è buio abbastanza?
No, sì, forse.
Io guido, lei apre la zip cozzando con le unghie sulla carne lucida e tesa.
Io guardo davanti e poi dietro, dedicando tempo e attenzione ai tre specchi.
Il braccio sinistro alzato contro il vetro, tanto per schermare un po'.
Mi pare che ci vedano tutti.
E forse è così, chissà.
Su e giù, su e giù, parte l'implacabile operazione pneumatica.
Risucchi e sbuffi e gemiti, Milano novanta chilometri.
Passo dai cento ai centotrenta in continuazione, rallentando quando chi mi affianca lo fa con lentezza o accelerando per sfuggire senza essere notato dagli altrui abitacoli.
E i camion?
Vedranno il suo pompare mi sa.
E suda, anche.
La sento con la mano destra, che scorre dal pomello del cambio di fredda plastica alla fornace che ha tra le cosce.
Frugo anche io, maledizione a traffico e sobbalzi.
Luci abbaglianti nello specchietto: chi è?
Mi vede che godo?
Che figura di merda.
No, non mi ha visto.
Milano ottanta chilometri.
Su e giù, su e giù.
Sensazioni contrastanti dal profondo.
Un paio di volte sto per imboccare il bivio che porta all'eruzione ma sbaglio strada.
Sono distratto, forse.
Maledetto traffico di rientro.
Tengo la seconda corsia, a volte la terza, cercando spazio libero; dovessi venirmene all'improvviso non voglio testimoni se non lei.
La sua bocca piena di me, dai che arrivo.
No.
Un pullmann cambia corsia, lampeggiando pigro col giallo delle sue freccione.
Il ritmo scende appena appena.
Mi inarco allora, su che che ce la fai.
Su e giù, su e giù e settanta, anzi no, cazzo solo cinquantacinque chilometri a Milano.
Ma quant'è che va avanti?
E allora la sento che aumenta il ritmo, una guerra personale tra donna e cazzo.
Ecco, forse... forse, sento un rimescolìo nel ventre... dai, dai.
Niente.
Piccola onda di riflusso, il sangue torna in giro, falso allarme.
E su e giù e su e giù, ed anche intorno adesso, che maestria.
Quaranta chilometri a Milano, il cartello era Biandrate se non erro.
Ho anche il tempo di concentrarmi sulle località, brutto segno.
A volte perdo la cognizione del pene, mi pare che lei sia solo accoccolata sul mio grembo.
Accartocciata; meglio.
Bruttissimo segno.
E mettici un po' di buona volontà, dai.
Pensa ad un bel porno magari, aiutati, prima che comici a pensare che di lei non te ne importa più.
E' una donna, ha strani processi mentali.
E se per ripicca me lo morde?
Il su e giù ora è scomposto, lei suda come una scrofa ed i vetri vanno appannandosi. 
Barriera di Milano a dieci chilometri.
Cosa?
Non ci credo, io ho ancora i pantaloni alle ginocchia.
Lei poco fa mi ha lanciato un'occhiata, ne sono certo.
Quel che ho visto non mi è piaciuto nemmeno un po'.
Mi odia o forse si odia.
Cristosanto, ma perchè non vengo?
Un attimo di oblìo e risolviamo la situazione, no?
E invece qui si configura un dramma, una scena madre, già lo vedo.
Tutto per un miserabile pompino.
Ti prego, reagisci maledetto, non senti che lei sta cedendo?
La vuoi vedere sconfitta, ho capito.
Una erezione di cento e passa chilometri.
Un po' sono orgoglioso però.
Decido in un attimo: accosto, scagliando la freccia di destra più che accenderla.
Mi infilo mezzo di traverso nella piazzuola di sosta, luci di posizione accese.
Anzi tengo il freno, gli stop li vedono meglio.
E se mi tampona un tir?
Succede spesso.
Tutto appannato, non vedo più niente fuori, solo i fari delle auto che sfrecciano come delle comete.
Penseranno che son fermo a scopare.
Abbasso di un pelo i finestri, per cercare di salvare le apparenze.
I vetri si puliscono un po', allora socchiudo il tettuccio e richiudo il finestrino di destra.
Nel silenzio solo i clic! dei tasti e il fric! dei cristalli, oltre al risucchio, certo, che ora è disperato .
Che situazione di cacca.
Su e giù, su e...
Si rialza, dopo un'ora di esercizio estenuante.
Le ha tentate tutte ed ha perso.
Mi guarda come un cerbiatto fa con il furgone che lo sta per investire.
Cerco di alleggerire la tensione.
- Che caldo, eh?
Lei non cambia espressione.
- Anche i finestrini. Quando ho sentito con quale precisione manovravi i finestrini dopo un'ora di pompa ho capito che era finita.
Come "pompa"
Non ha mai detto una parolaccia prima d'ora. 
Poi si butta indietro, in preda ad atroci dolori.
Mi sa che s'è infiammata qualche nervo, poverina.
Riparto mestamente.
Lei si lamenta con le mani a coppa sull'occhio destro: - Ahia, ahia, mi scoppia la testa.
Siamo in città ora e nessuno dice nulla, solo lamenti suoi ed imbarazzo mio.
Con tutto ciò mi accorgo che ce l'ho ancora di fuori, dritto come un palo.
Totemico quasi. 
Rinfodero senza dare nell'occhio.
Mi fermo sotto casa sua e tento un bacio distensivo.
Mi evita uggiolando, sempre con la mano sull'occhio.
Esce e gira dietro la macchina, perchè mi sono fermato troppo vicino a quelle parcheggiate e dal davanti non ci passa.
Barcolla un po' sui tacchi a palafitta.
Mi sento una merda.
Butto l'occhio nel retrovisore e non vedo nulla, perchè lei nell'esatto istante s'è piegata in due per una fitta d'emicrania più intensa.
Ingrano la retro e scatto con un po' di imprevista rabbia.
Sento un tonfo ma lo ignoro, perchè voglio arrivare a casa in fretta per dimenticare tutta la faccenda con una salomonica sega.
Non guardo nemmeno alle spalle, sono sconvolto.
C'eravamo tanto divertiti oggi, e poi era solo...solo un pompino, niente di che.
Guarda cosa ti va a succedere.




Appena dopo la sega di cui parlavo, ho deciso di chiamarla.
Questione di coscienza, volevo rassicurarla sulla solidità del sentimento.
Non risponde, me l'aspettavo.
Mi chiama un paio d'ore dopo dall'ospedale.
Le ho fratturato il bacino e le hanno messo anche un collarino semirigido, senza spiegarsi la connessione tra le due patologie traumatiche.
Quella me la spiego io.
Mi metto a letto e spengo la luce.
Domani vado a trovarla con un mazzo di fiori.
Le donne...
   

lunedì 27 ottobre 2014

Girotondo col tumore

Ehilà, sono di nuovo qui dopo un bel po'.
Tanto che, quasi quasi, non ricordavo la password per rientrare in questo angusto anfratto, nonostante io sia, attualmente, piuttosto smilzo.
Niente diete, solo cancro.
Poco prima di scrivere il penultimo post stazzavo poco più di ottanta chili, un mese fa ho toccato i 68.
Mica male, potevo indossare per la prima volta gli agognati calzoncini Sundek coll'arcobaleno sul culo senza vedermi spuntare due salsicce sui fianchi.
Però il merito è sempre del cancro, io c'entro nulla.
Mi è stato diagnosticato in un giorno di metà maggio scorso, giorno invero piuttosto impegnativo sotto il profilo personale, ammetto.
Ma oggi non c'è più, asportato dal colon dopo otto ore di un'operazione che mi ha lasciato in eredità per qualche giorno sonde e tubi infilati praticamente in tutti gli orifizi, alcuni aperti per l'occasione.
Tra un po' l'ultima fase, una robusta chemio fatta per stare sicuri che la cosa non si ripeterà se non in probabilità di ridottissima percentuale statistica.
Ergo non morirò nel breve, almeno non per questo motivo.
Nel frattempo ho terminato "Encefalonight"e ne ho incominciato la fase questua di invio agli editori.
Vediamo se verrà accolto entro la durata della terapia oppure no.
Ci conto abbastanza, perchè mi pare venuto bene.
Ah, intanto "Annegando Milano" ha davvero esaurito la prima tiratura, e questo già alla fine di luglio.
Mi pare che per il romanzo di un esordiente che non ha ricevuto praticamente promozione sia un risultato notevole, tenendo presente che le copie stampate erano mille.
Attendo con ansia il prossimo novembre, perchè dovrei incassare i primi diritti e c'è, tradizionalmente, del bisogno qui.
Son pure un uomo malato :-))
Tornando alla merda della malattia, lo dico a beneficio di chi dovesse, tapino, venirne aggredito: non fate mai l'errore di cadere nel classico pensiero"perchè proprio a me?".
Io, per puro culo dovuto a forma mentale vacua, non l'ho fatto perchè non mi sono mai sentito affetto dal cancro.
E ho reagito ottimamente alle cure.
Voglio vederci un collegamento tra le due cose.
Ho scoperto che molto fa la paura che è stata circonfusa in quel termine, che senti nominare fin dall'infanzia solo legato a lugubri storie di sofferenza inevitabilmente terminanti nella morte, più che il male in sè.
Cercate di vederlo anche voi, specialmente chi, in questo preciso momento, si porta dentro quella merda subdola come un semplice segno zodiacale e nulla più, al massimo una malattia un po' più perniciosa delle altre ma che si può risolvere anche lei nella maggior parte dei casi.
Affrontate da "sani" il cancro, anche se in realtà qualcuno con un camice vi dice il contrario.
Sarà difficile, anche dolorosa, molto lunga ma finirà, anche e soprattutto se lo vorrete.
Ciao ciao, vado a mangiare qualcosa che ho ancora otto chili da riprendere.

venerdì 11 luglio 2014

Aspettative

Vabè.
Ritorno qua sul luogo del delitto dopo un bel po'.
Ho i miei motivi.
Però sapere che il libro vendicchia mi fa stare meglio, almeno sotto il profilo psicologico.
Adesso però è il momento di togliere al post di Annegando la prima posizione, perchè ormai s'è capito cos'è e dove trovarlo.
Non che ne avessi particolare voglia, non sapevo nemmeno cosa scrivere, solo che nell'ultimo periodo ho riflettuto sulle aspettative.
In generale e poi nello specifico, ma dirò meglio tra poco.
Prima vorrei parlare di una tizia che conosco e che improvvisamente, qualche anno fa, s'era "inventata" pittrice.
Non mi ricordo se prima della folgorazione avesse già avuto qualche prodromo artistico, comunque ad un certo punto, sorretta da buone conoscenze, era riuscita ad agganciare un bieco "mercante d'arte"che, dopo averne visionato le opere, ne aveva decretato un certo potenziale commerciale (non artistico neh, occhio).
Non tutte, cioè non lo stile tout court, solo un tipo, tele molto grandi, roba di metri per metri e pesanti, perchè si trattava non di solo colore ma anche materiali applicati a suggerire forme umane.
Verdetto: se vogliamo ottenere qualcosa (vendere) fammene dieci così, poi ti dico io quando cambiare colore/soggetto/sarcazz.
Ho semplificato, ma non troppo.
Dipinti su ordinazione, come per la stragrande maggioranza dei pittori odierni legati alla Galleria.
L'artista operava nel grande salone di casa, riducendolo il casino che ovviamente sono gli atelier dei pittori.
Avete mai visto una foto di quello di Francis Bacon?
Agevolo, così che sia chiaro perché poi dipingeva quel che dipingeva.








Bene.
Tutto questo racconto per dire cosa?
Uno, che lei, l'artista non lo è più perchè il mercante non ha trovato altri filoni e lei s'è smontata.
Due, che forse era stufa di avere un salone da far schifo.
Tre, che l'aspettativa è una brutta bestia.
Non è assolutamente significativo superare quella che sembra la barriera più impenetrabile, cioè l'emersione dalla massa di chi ci prova penetrando nell'elite che invece ce la fa.
Pubblicare un libro, un brano musicale, esporre un quadro o il culo sono prove di esistenza in vita gratificanti, ma effimere e vigliacche.
Perchè poi c'è l'aspettativa, non la nostra, quella assai più affilata del mondo esterno nei nostri confronti.
Saremo in grado di reggerla anche quando l'intenzione è di seguire il nostro istinto e non quello che chiaramente ci viene richiesto?
Essendo questo il mio blog, personalizzo.
Non so come la vedete voi col vostro di pubblico, scrivetelo da qualche parte magari, anche qui se vi va.
Annegando Milano è un giallo, ovviamente.
Proposto ad editori specializzati nel settore è stato pubblicato e lo trovate nel reparto specifico.
Non si sgarra, sei subito catalogato.
Però io non sono un giallista e non me ne frega niente di scriverne un altro di giallo.
Scrivere un giallo devasta, perchè tutta la carne che ti viene in mente di mettere al fuoco poi la devi cuocere a puntino, tutta, senza sgarrare perchè i lettori di quel genere sono feroci animaloni da preda che non perdonano (tu no A.T.P. a te ti salva l'aquila).
Già mi aspetto che, se la tiratura iniziale verrà esaurita, l'editrice mi potrà, magari timidamente, chiedere un seguito, anzi è quasi certo.
Stesso personaggio, altra avventura.
Probabile che le aspettative degli avidi lettori di gialli siano le stessa ed io finisca con l'essere atteso per il secondo round, una roba tipo Rianimare Milano magari.
Ed è qui che inizia il timore, perchè il secondo romanzo, che sto ultimando, è un thriller fantapolitico ambientato nel 2048 non un giallo.
Perchè quello avevo voglia di scrivere.
Piacerà Gaetano"Chen"Palombo quanto sta piacendo il sedicente Romeo Benetti di Annegando?
E quando andrò a proporre il manoscritto qualcuno mi dirà, magari deluso "ma non è il seguito di..."?
No, non è il seguito di.
Insomma capito?
La vita è proprio un casino che ci costringono a vivere strappandoci dal limbo delle anime vaganti.
Ma mettersi un goldone ogni tanto no?












domenica 18 maggio 2014

Annegando Milano


Eccolo qua.
Il 22 maggio comparirà in libreria il mio primo romanzo con Isbn sul retro (per il primo senza avete solo da leggere il post su Nuvola Nove) per i tipi, come si dice in questi casi, di Eclissi editrice.
E' già da ora disponibile in prenotazione sul loro sito sia in versione e-book che classicamente cartacea, se non potete contenervi, altrimenti attendete la data indicata e recatevi in qualche libreria Feltrinelli.
Annegando Milano quindi, anche se in origine il suo titolo era Fittipaldi nelle fragole, per motivi che si chiariscono leggendolo.
Si tratta di un noir basato su di una serie di fattacci compiutisi in un passato più o meno distante che riaffiorano, è proprio il caso di dirlo, con estrema violenza attraverso i getti delle, poche ma buone, fontane di Milano.
Ci scappa un morto, decisivo per far partire l'ingranaggione, e c'è un eroe riluttante, già ben pieno di cazzi suoi propri anche senza quelli che il destino cinico gli addossa per soprammercato.
Ma tant'è, la curiosità non è solo femmina e il nostro (che poi sono i nostri), di scoperta in scoperta finisce per svelare l'intricato mondo silenzioso che si cela sotto le strade e gli edifici della metropoli: acque antiche, canali segreti e navigli nascosti ed un progetto folle e per certi versi condivisibile, quello di annegare Milano.
Ce la fanno?
Non ce la fanno?
Boh, non me lo ricordo... fatto sta che per arrivare a deciderlo ci ho messo dentro un falso speleologo dello Scam con una gamba di legno, una bicicletta elettrificata, la Massa Critica che scampanella qua e là ogni giovedì sera e molto altro.
Voilà, 260 paginette grondanti l'entusiasmo ferale del Vostro anfitrione qui presente che per documentarsi convenientemente si è sciroppato lunghe gite sotterranee al Castello Sforzesco (bellissimo) e lungo alcuni tratti braidensi del Naviglio, letture immersive di carte antiche e grossi bricchi di thè, orzo, cocacola allungata con l'acqua, a volte chinotto.
Il tutto dieci mesi dopo aver infilato a forza (perchè non ci entrava mica tanto bene) quel balenottero del manoscritto nella bocca della posta dell'Editore.
Ho preparato anche un'espansione visuale del romanzo, per quelli che come San Tommaso devono per forza vedere dove e come.
La trovate qui: https://www.facebook.com/annegandomilano?ref=hl
Se non vi piace fate il piacere di non dirmelo, che sono particolarmente delicato in questo periodo...
Adesso vado a prendere le gocce per dormire.

giovedì 15 maggio 2014

Vent'anni dopo.

State tranquilli, non si parla né di Moschettieri né del secondo tassello della loro trilogia, anche se lo  scoprire da piccolo che, oltre alla solita storia conosciuta dell'uno per tutti e tutti per uno, ce n'erano altri due episodi mi toccò parecchio.
No, qui si parla di altri "vent'anni dopo".
Capita a volte di dover mettere le mani in cose che si erano dimenticate, vuoi per fare pulizia, vuoi per fare spazio: sprofondato nella muffa della cantina mi sono imbattuto in un vecchio faldone di foto riguardanti la mia vita precedente e vasto è stato lo stupore nel constatare che mi trovo esattamente a vent'anni di distanza dalla mia ultima affermazione sportiva.
Vent'anni sono tanti, nella mia testa è sempre stata l'unità temporale classica per definire il "tanto tempo fa", il "molto lontano da me".
Quindi mi sono detto che la cosa andava festeggiata in qualche modo, tipo fermarla nella memoria di questo blog pieno di niente, e così ho estratto un po' di immagini dal decennio nel quale ho corso in macchina.
E questo è il detonatore.
Poi c'è l'esplosivo: ho compiuto i vent'anni nel paddock di Monza e i trenta in quello di Imola ed in mezzo ci ho messo un po' di cose, irregolari nello svolgimento e negli esiti ma tutte degne di essere vissute e che, grossomodo, rifarei.
Tutte tranne l'ultimissima che mi è capitata fra capo e collo un giorno fa e che mi costringe ora a rispolverare quella ferocia mentale che era necessaria per fare in pieno la seconda di Lesmo e utilizzarla adesso per un altro tipo di lotta con me stesso.
Sono criptico, perdonate, ma a me, ora, serve così.

F.3 Monza 1990, Variante della Roggia su Reynard 883 - Alfa Romeo.
In quell'anno di debutto solo un pugno di gare e un sesto posto a Bari (Binetto) con giro più veloce: stavo pure a Militare e per correre mi fumavo le licenze come toscani.

Spendere la parte più luminosa della giovinezza correndo in pista trovo comunque sia stata un'idea piuttosto brillante, decisamente meglio che accatastare giorni inutili rollando canne con gli amici al parco.
Sarà che il fumo mi ha sempre dato fastidio.

Il caldo boia di Pergusa, 1991. Reynard 903- Alfa Romeo e notare l'ala dietro a zero carico per la massima velocità. Bellissima pista old style tutta sconnessa, ambiente surreale, grandi bruschette al pomodoro fresco nella piazza sopra l'autodromo la sera. Risultati zero.

È stata anche un'esperienza piuttosto cinematografica se vogliamo, perchè attorno ai 24 anni sbattei nelle classiche Sliding Doors, schiantandomici, e senza nemmeno incontrare Gwynet Paltrow ahimè.
Chissà cosa sarebbe successo se... quante volte ci si fa questa domanda?
Io molte volte, anzi sono anni che mi sogno scenari possibili, tutti invariabilmente perniciosi.
Io li chiamo "sogni competitivi"e so che mi accompagneranno alla bara, serenamente, pacatamente.
In questi episodi onirici sto sempre lì lì per vincere qualcosa ma gli inconvenienti più comici mi impediscono di quagliare, tipo che mi fermano perchè non ho i guanti, oppure la macchina diventa microscopica o perdo una scarpa oppure oppure... potrei riempire un quaderno.
La realtà fu diversa e tremendamente più concreta.
Comunque questa è la foto nr.1, quella datata esattamente vent'anni fa, 5 giugno 1994, (avevo pure i capelli scuri, pensa te) che mi ha fatto scattare il crimine:


Certo potevano sprecarsi di più con la dimensione delle bottiglie...

Qui, nel 1994, correvo nel CIVT, acronimo di Campionato Italiano Velocità Turismo e, dopo questa vittoria di Misano che seguiva quella a Monza di un mese e mezzo prima, mi trovavo in testa a ben quattro classifiche: quella generale del CIVT, quella di Classe, la Under 25 e quella della Coppa Peugeot, marca per la quale guidavo.
Nessuno prima (e nessuno poi) era mai riuscito in una simile tetralogia.
Non ci riuscii nemmeno io :-)
Però mancò pochissimo e per questo il dolore per lo spiaccicamento contro la Sliding Door di prima è ancora avvertibile: mi avvicinai tanto da poter vedere le sagome di quel che c'era di là, ma non abbastanza per distinguerle chiaramente.
Ho ottenuto un dito in culo come vitalizio.
Dovetti saltare una trasferta a Bari per mancanza di soldi (ma và?), e alla stretta finale venni coinvolto in un incidente al via a Varano de Melegari che divenne per mia somma sfiga anche parte della sigla di un programma motoristico dell'epoca, così potei per un po' di anni rivedermi il fallimento in playback.
Insomma, finii vice campione tricolore nell'Under 25, terzo in Coppa Peugeot e in Classe N7 e quinto o sesto nella generale.
Gloria zero e soldi premio pochi, inoltre a quello che vinse al posto mio, Autosprint dedicò un poster bello grande.
Avrei voluto esserci io appeso nella cameretta di qualcuno, invece niente...
A tutto ciò aggiunsi poi un altro platonico titolo di vice campione italiano nel '96, poi stop, la vita bussa alla porta e il gioco s'interrompe.
L'assegno in quel caso fu più sostanzioso e consegnatomi durante una premiazione al Casinò di Venezia: c'era una sola cravatta in sala e ce la scambiavamo a turno quando eravamo chiamati sul palco...
I piloti sono gente pessima.
Di quegli anni mi ricordo soprattutto i debiti e le volate a ritirare i premi d'arrivo da girare rapido al Team che altrimenti non caricava le macchine sul camion e la linea tratteggiata sull'autostrada, che correva dritta sotto le mie ruote mentre mi spostavo da un circuito all'altro.
Tutto sommato sto meglio ora che non ho manco un'automobile: guidare una monoposto in luglio a Pergusa con 35 gradi, indossando una tuta ignifuga è un'esperienza non particolarmente piacevole, a meno che non si venga pagati per farlo.
Io non lo ero.

Qui sono a Imola in una delle mie ultime apparizioni. Civt, credo classe N5 con la Peugeot 106 16v nell'aprile 2000. L'età avanzava ed il piede si alleggeriva, mannaggia, anche se qua vedo una sola ruota attaccata a terra.
Non mi ricordo cosa combinai di preciso, ma se non lo ricordo tanto bene non andai...


Ah, qua vado a vincere la Top Cup Peugeot al Motorshow di Bologna, una gara ad inviti per i più bravini dell'anno con le loro macchinette. Probabile fosse il 1995. Mi invitarono tre volte e feci un primo, un secondo e un terzo.
Per fare la pole nell'Area 48 staccai diverse volte gli specchietti contro i muri. Andavo volentieri perchè Peugeot pagava tutto, bell'albergo, banchetti pantagruelici in cui mi strafogavo e in più tornavo con la mia bella targhetta: che c'era di meglio? Ora a in fiera a Bologna ci vado col trolley per l'Editoria dei ragazzi... eh, eh. Il Motorshow manco c'è più.
Però guarda quanta gente!
Questa è bella. L'anno il '91, l'auto una scacionissima 205 Rallye 1.3 prestata e la corsa è la 6 Ore di Vallelunga.
In coppia con Michele Colacino arrivammo terzi in quell'anno e vincemmo la classe quello dopo. La macchina era un vero cesso legato insieme col filo di ferro, ma noi eravamo giuovinotti caparbi e baldanzosi e non c'importava.
Le Coppe a casa le portammo comunque.
Anche qua mi invitarono; Superturismo 1996 a Monza su Peugeot 405 Mi-16.
Una truffa orchestrata dal furbo Team Manager Trione per inculare qualcuno e nella quale rimasi mio malgrado coinvolto. Per risparmiare montarono componenti a fine chilometraggio tenendo i vertici all'oscuro e addossando la colpa su di me. La frizione si bruciò prima del via della prima manche dopo che tra libere ed ufficiali mi avevano fatto fare a malapena dieci giri. Fortuna mia e sfortuna loro, ero in ottimi rapporti con l'Ufficio Sportivo della Casa francese e non ci misi molto a smascherarli. La mia occasione di diventare pilota ufficiale però sfumò per la seconda (ed ultima) volta.


Chiusa parentesi.
Il faldone con le foto muffe torna in qualche anfratto.
A fra vent'anni.

p.s.

Questo post è dedicato a Sandro, a Mauro, a Bruno e a tutti i ragazzi di allora che hanno spento il motore prima del tempo.

giovedì 8 maggio 2014

L'Automobile

In vita mia ho posseduto svariate automobili.
Ora non ne ho manco una ma, statisticamente, dai 18 ai 41 anni se ne sono succedute sette direttamente riconducibili a me.
Alcune le ricorderò sempre con molto affetto, altre meno, ma UNA, una per me rimarrà l'AUTOMOBILE, quella che vorrei avere ancora, che rimpiango e che per certi versi più mi ha rappresentato.
L'oggetto è questo:


Stessa capote, stesse ruote e stessi interni della mia... nostalgia bagascia! 

Si tratta di una Jeep Cj-5.
Una linea senza tempo, mutuata dalle Willy's della Seconda Guerra, con quei fari tondi e le sette feritoie frontali classiche quanto le cariatidi del Partenone.
Già allora dovetti scontrarmi con la crassa ignoranza della vulgata.
Jeep è un nome da sempre percepito come definizione del segmento fuoristrada, (che se grossi diventano gipponi...) come lo scotch per il nastro adesivo, cosi quando mi chiedevano che macchina avessi e rispondevo "una Jeep" andava in scena invariabilmente il seguente cabaret:
"Sì ma che marca".
"Jeep".
"Ho capito ma Mitsubishi, Land Rover...".
"Jeep".
 "Stronzo, non me lo vuoi dire...".
"JEEEEEEP".
Comunque, la vettura in questione la trovai sulle pagine di una rivista in quel di Cremona e per lei vendetti una moto e qualcos'altro che non ricordo più.
Mi scontrai con un po' di problemi, io che all'epoca volevo fare l'americano a Milano, e cioè che il vero desiderata, il SUO motore d'elezione, non si trovava in giro facilmente e quindi dovetti ripiegare sulla prima che trovai a prezzo per me abbordabile ma col motore sbagliato.
Si sappia che questo sbaglio era un sottosviluppatissimo Isuzu a gasolio ASPIRATO (!) duemila e quattro che erogava poco più di cinquanta cavalli...
Leggi non andava un cazzo.
E quando dico "cazzo" credeteci.
Centodieci orari in scia ai Tir se in buona, altrimenti qualcosa meno, nel traffico della città mi salvavano il discreto tiro in basso e le marce rapportate sul corto ma era comunque un esercizio buono per l'autocontrollo quello di contenere le bestemmie ad ogni affondata sull'acceleratore.
In compenso, e questa era una caratteristica di quei mezzi, lo sterzo era preciso come la mano di un ubriaco e i freni più che frenare "suggerivano" un rallentamento (anche alle velocità comiche che si potevano tenere).
Ma vi assicuro signori e signore, che procedere in tutto relax con una Cj completamente aperta (cioè senza tetto né portiere) e vedere ogni ostacolo sparire sotto l'alto cofano dava una sensazione di piacere fisico  e libertà di movimento che ancora ricordo con vivida emozione e che nessun altro mezzo a motore mi ha mai più regalato (nemmeno le moto per dire).
Una volta mi colse un temporale in autostrada mentre viaggiavo in quel modo.
Finchè procedetti l'aerodinamica convogliò la pioggia alle mie spalle, lasciandomi asciutto e giulivo sotto gli occhi invidiosi degli altri, chiusi nelle loro scatolette di sardine.
Poi arrivai al casello e smisi di ridere.
E un'altra volta feci il viaggio Milano - Misano Adriatico en plein air, coi capelli scompigliati dal vento ed il sole su (un lato) della faccia.
Arrivai in Riviera che sembravo il Barone Ashura, pallido di qua e ustionato di là, e con le alghe al posto dei capelli, ma che figata e che nostalgia... ero il monarca dell'Autosole.
La volli bordeaux metallizzato, da oro pallido che era con fregi adesivi arancio-marroni (troppo yankee per i miei nobili gusti), con i cerchi bianchi.
Ruote da 31pollici, grandi ma non grandissime (la morte sua, di un Cj, avviene con le 33'' ed un leggero rialzo) così,




Per contenere i costi mi fidai di un cretino e la portai da un amico suo che era carrozziere come io ero panettiere.
Riuscì nella non facile impresa di farla diventare per tre quarti metallizzata e per uno pastello (negli angolari posteriori) senza che riuscissi mai a capire come aveva fatto.
Ma tant'è, era bellissima coi suoi interni di panno beige, il soft top nero e tutti gli accessorietti che le avevo donato (essendo un Renegade aveva finiture verniciate in nero, io montai ganci e cerniere cromati del Laredo), non ultimo uno scarico laterale che scimmiottava quelli del benzina, che però erano uno per lato contro il mio solitario a sinistra.
E gli interni?
Adesso si storce il naso se manca il navigatore o la telecamera per il parcheggio... guarda qua com'è la situazione in uno di quei mezzi fantastici:

Se montavi lo stereo eri già un signore... io l'avevo e anche l'inclinometro a mercurio che 'sto barbone non ha.

Non c'è niente!
Che sogno.
Dovetti venderla ad un certo punto ad un rude edile veneto che voleva impiegarla nei cantieri, perchè la conta dei piccoli problemucci che saltavano fuori cominciava ad essere oltre le mie possibilità.
Il detto "chi più spende meno spende" è più vero del vero.
La salutai per sempre una sera, sul piazzale di San Siro, dove anzichè il suo sottile volante mi rimasero in mano un pacco di centomila.
Non ho foto di lei e me ne dispiaccio.
Nei miei sogni spesso la guido ancora qua e là con immutato buonumore.
Se dovessi vincere al totocalcio o ereditare da un parente che purtroppo non ho però saprei che fare.
Mi ero dovuto accontentare del Cj-5 ma esteticamente gli preferivo il 7, quello a passo lungo, benché un po' più pesante (perchè a parer mio il pezzo in più equilibrava la linea e metteva in maggior risalto le ruote, anche grazie al suo assale posteriore più largo che le spingeva libidinosamente fuori dai parafanghini).
Così, per capirci:

A questo Cj-7, oltre alla parola, mancano solo gli scarichi laterali.

Me lo farei fare nero opaco stavolta, con gli scarichi laterali cromati e con sotto al cofano il suo originale AMC 304 a benzina, un primordiale otto cilindri a v di 4980 cc, possente e gorgogliante come una pentola di fagioli.
Ascoltare per credere.





150 cavalli, coppia come i turbodiesel moderni e il carter dipinto vezzosamente di blu, vorace carburatore Edelbrock doppio corpo per fare poco più dei cinque con un litro a starci attento e vaffanculo a tutte le Aree C del mondo.
Anzi, visto che son qua a sognare, farei come molti fanno con quei favolosi trattori, gli monterei sotto il 360, cioè un 5800, che era lo stesso blocco motore ma destinato al modello Gran Wagoneer, l'ammiraglia della gamma.
Allora sì che sarei a posto fino alla fine dei miei giorni.
Ora scusatemi, ma tutto questo fantasticare sul Cj mi ha portato ad una inconsapevole polluzione diurna.
Vado a fare un bidet.

martedì 6 maggio 2014

Cibo Matto

Le Cibo Matto sono queste qua:



Insiema ai Pizzicato Five, che sono invece questi,





 avevano fatto parlare di sé una decina d'anni fa mi pare, più per il nome che per la musica che facevano.
Ma non è di loro che volevo dire, era solo un'alibi per arrivare a parlare di quest'era del cibo sempre e comunque che stiamo vivendo.
In Italia non c'è altro argomento di discussione in questi ultimi tempi.
Viviamo in un parossismo gastronomico, in un orgiastico banchetto diffuso.
Vai a cena da amici e mentre stai mangiando un primo od un secondo qualcuno salta su ricordando lo spaghetto di Tizio e la torta di Caio con doviziosa descrizione della preparazione.
E il bello è che tutti partecipano, tutta la tavola, anche gente di cui non avresti detto, tutti lì a farsi le pulci sulla cottura o sulla quantità e con vero interesse, mica per una questione di educazione.
Una volta i programmi di cucina in tv si contavano sulle dita di una mano monca.
Lo so perchè erano i miei favoriti all'ora dei pasti, (al limite mi facevo andar bene Corrado col Pranzo è servito)





perchè mi scatenavano un extra appetito che rendeva pantagruelico anche il mio smunto panino col prosciutto.
Sì, perchè mia madre aveva intuito le potenzialità di un figlio che si accontentava di quel che trovava al ritorno da scuola nell'ottica di un certo fancazzismo, e aveva introdotto lestamente un regime a base di rapidi panini imbottiti che io non sono mai più riuscito a spezzare.
Per questo poi, da grande, mi sono sempre ben guardato dall'andare "a pranzo dalla mamma la domenica" (con suo grande sospiro di sollievo).
Oggi invece c'è da uscirne obesi solo sedendosi davanti allo schermo e a qualsiasi ora.
Ma com'è che si finisce sempre per abusare delle cose?
L'equilibrio è la dote più rara in natura.
Inoltre la figura emergente non è quella del cuoco pingue e amichevole, della Nonna o della Sora Lella della situazione, non dico una moderna epigona dell'Ave Ninchi dei tempi che furono


Ave Ninchi, appunto. 

macché, oggi va di brutto l'uomo con barba di qualche giorno ed occhio intenso che arrivato a tiro di un fornello, magicamente, si arrotola le maniche di una camicia bianchissima e comincia a tagliare pomodori con mano ferma e tocchi rapidissimi.
Un po' come un cane quando vede la palla.
Invariabilmente questi soggetti sporcano più pentole che una mensa per impiattare poi un caghino di pietanza tipo nouvelle cousine (e poi chi lava, boh?).
Il tutto dopo aver stappato una bottiglia di rosso e tirato grandi pacche virili sulla schiena dell'ospite.
Ma una volta la cena non era un'ostacolo da superare alla svelta per trombare?
Una sorta di inevitabile ostacolo che andava affrontato coi muscoli tesi come il cavallo e le parallele nell'ora di ginnastica?
Adesso chi tromba più dopo ore ed ore passate tra supermarket, preparazione e racconti su pasti e ricette altrui?
Ecco giusto ora ho visto uno spot con Favino che è esattamente così... pazzesc (cioè, non che tromba, che cucina in camicia bianca).
Liberatemi da tutto questo cibo! io, che quando confesso di mangiare solo per non crepare vengo guardato con orrore.
Almeno quando mi capiterà di introdurre a tavola un discorso diverso, chessò un po' di politichina, magari cronaca nera, delle volte attualità generica, qualcuno mi cagherà.