domenica 29 dicembre 2013

Una vita a crudo.

Ah i giapponesi!
Non so il perché ma li ho sempre istintivamente apprezzati.
Se suonasse un giapponese alla mia porta per vuotarmi in testa un secchio di letame non riuscirei a percuoterlo cercando vendetta, no.
Credo proprio che andrei verso la doccia con la convinzione che la paccata di merda celi una lezione di vita senz'altro saggia, senz'altro altamente spirituale.
Del resto, gente che costruisce e mette nella vetrina dal tuo concessionario la  Honda cb 750 four ha vinto a  prescindere.
L'italiota motorizzato dell'epoca (parliamo del 1969) aveva giù in garage il Vespone, oppure se gran figo del quartiere il Guzzi Falcone, quello col volano tipo affettasalami, insieme alla cassetta degli attrezzi da usarsi ogni volta che rientrava da un giro (se rientrava) per rimettere insieme i pezzi.
Esce di casa una bella mattina e cosa ti trova parcheggiata sul marciapiede?

Una roba con quattro cilindri anziché uno, massimo due , il freno a disco, l'avviamento elettrico, le cromature che brillano, le luci che funzionano, una cilindrata da paura, una potenza da denuncia ed un prezzo allineato alle altre motociclette.

E che in più va sempre.
Lascio giù questa alla sera...

... e trovo quest'altra la mattina...













  
Preciso, per dare idea dell'enormità: fate conto di scendere in strada e di trovare al posto della vostra auto una macchina da trecento all'ora, che consuma come una Panda, con il pilota automatico e la Jacuzzi tra i sedili.
Chiaro?
Per questo guardando il documentario "Jiro e l'arte del sushi" non avevo scampo: anche fosse stato un cialtrone io l'avrei difeso.
Invece Jiro è un capo e si difende da solo.



Il film è del 2011, quindi lui che lì dichiarava ottantacinque anni oggi ne ha ottantasette, dritto come un fuso, tre stelle Michelin per il suo sushi.
L'unico al mondo.
Con un ristorante che ha dieci coperti giapponesi (quindi ci staranno sei sette tedeschi), stretto e lungo a cui si accede scendendo in metropolitana nella stazione di Ginza, a Tokyo.
Vi anticipo: anche io ho detto "ma come si fa ad avere tre stelle facendo una roba basica come il sushi?".
Ma io son scemo, voi no, quindi ci ho messo un po' a capire quanto sbagliavo.
Le cose apparentemente piú semplici sono quelle piú difficili, perché richiedono dedizione assoluta, amore e cura del dettaglio per poterle affinare fino ad elevarle ad arte come fa quel cuoco coi suoi fagotti di pesce crudo.
Jiro ha messo a punto un menu degustazione di venti pezzi che, a detta di un critico gastronomico che l'ha provato, equivalgono ai movimenti di un concerto.
E non messi tutti insieme come fanno qui, no, un pezzo per volta e secondo un ben congegnato percorso lungo varietà di pesce diverse, sotto lo sguardo dello chef che attende paziente l'ingollo prima di calare implacabile nel piatto il sushi seguente.
Ma ancora non é chiara la magia, almeno finché non si vedono Jiro e suo figlio maneggiare l'esatta quantità di ingrediente con l'esatta richiesta di movimento alle mani dopo aver selezionato al mercato solo il meglio di ciò che altri asceti come loro ha già selezionato.
Il meglio del meglio del meglio, filtrato attraverso quel rigore feroce tutto nipponico che ha fatto la fortuna del paese e dei suoi psicanalisti (immagino).
Il cuoco ha pure due figli che fanno lo stesso mestiere, non perché l'abbiano scelto loro quanto perché il padre se li è portati a bottega da subito, senza discussione e col noto furore di cui sopra.
Perché Jiro ha cominciato a dieci anni e per i 75 successivi ha trascorso tutta la sua giornata tra il mercato del pesce ed il ristorante, festività incluse.
Un martello, uno stakanovista; un pazzo per i nostri parametri.
Chiaro come cotanto genitore abbia traviato la prole, con l'aggravante che il maggiore dei due lavora nello stesso ristorante del vecchio, che non ne vuole sapere di andare in pensione.
Dato che in Giappone è il primogenito che eredita l'attività del padre, il tapino è nella strana posizione di vedersi castrata la carriera nonostante goda dell'addestramento del migliore al mondo da decenni.
Immagino la pressione psicologica pensando a ciò che dovrà inventarsi per essere all'altezza quando Jiro stirerà le zampe.
E qui le due correnti di pensiero si scontrano: visione nipponica o italica?
La felicità sta nel sublimarsi nel tentativo leggermente disumano di tendere alla perfezione ogni giorno senza mai mollare oppure godersi maggiormente l'unica vita che abbiamo in dotazione?
Mi accorgo che scrivendo "leggermente disumano" già si capisce da che parte penda il mio pensare.
Ma io sono un debosciato e non avrò mai tre stelle nemmeno pagandole.
Quindi ha ragione Jiro?
Lui che quale voce fuoricampo sostiene che "un uomo deve scegliersi un lavoro e poi trascorrere tutta la vita amandolo e dedicandocisi per migliorarlo ogni giorno, senza smettere mai".

Non lo so, considerando ciò che la sua famiglia ha dovuto subire per sopportare la sua incredibile determinazione professionale.
La mia ha subito senz'altro meno il mio pernicioso fancazzismo (almeno spero... mamma?)
Abbiamo sbagliato entrambi, ma io ho fatto meno danno...
Insomma l'equilibrio, il segreto è l'equilibrio: a tavola, nella vita, sul filo teso dell'esistenza.
L'ultima cosa su Ono e i suoi sushi è che per un pranzo ti chiede 250 euro.
250 per 19-20 pezzi di sushi che al ritmo di un minuto e mezzo l'uno per mangiarli trasformano l'esperienza nel più costoso pasto consumabile in 20 minuti, preparazione compresa.
Ora, io non credo che possa esserci nulla che giustifichi un prezzo simile per un sushi, per quanto possa essere preparato con il meglio che c'è in giro.
Allora mi viene il sospetto che Jiro mi metta nel conto pure la nevrosi sviluppata in una vita monodimensionale spesa nel migliorare quotidianamente la qualità del suo cibo, il peso di una scelta premiante sul lunghissimo termine ma oppressiva per tutto il resto, una prigione su rotelle nella quale si è volontariamente chiuso e nella quale ha chiuso i familiari.
Eh no, caro carissimo Jiro!
Che cazzo vuoi da me?
Se ti fossi comprato la Four quel giorno là, e anziché in cucina avessi tirato due pieghe sul monte Fuji adesso il tuo sushi costerebbe un po' meno e tu staresti forse un po' meglio.

venerdì 27 dicembre 2013

Dentro La Vasca.

Mi domando se sia esistito qualcuno che abbia secreto una ed una sola opera d'ingegno nella vita, scrittura, pittura, disegno, fate voi, riproponendola poi ciclicamente in accordo con i cambiamenti della propria personalità.
Per cercare di spiegarmi ho qui un esempio pronto, per chiarire quel che intendo con "cambiamento" in un artista: Magnus.
 
Io ho un lumino sempre acceso sotto questa foto.


Non mi interessa il prima e il dopo, fatti vostri e invidia se non lo conoscete e dovete ancora scoprirlo, ma quei 75 numeri di Alan Ford che ha disegnato prima di rompersi i maroni, quelli che vanno da "Il gruppo Tnt" a "Cala la tela per Superciuk", cioè da qui a qui:




























Preciso che i 75 vanno avuti, fieramente difesi da attacchi esterni di mogli, madri, figli, cani, gatti o tartarughe e consultati, compulsivamente, fino a sbriciolarne le paginette.
L'opera grafica di Raviola è così devastante da trascinarsi dietro pure lo zero Max Bunker/Luciano Secchi i cui testi sono sempre stati da latte cagliato alle ginocchia.
Ebbene, dopo un tot di tempo, con la collana ampiamente senza più nulla da dire e con disegni incapaci di sostenere i testi del menga (salvo Piffarerio che seguì a ruota Magnus alle matite), arrivò il nr. 200 che, a sorpresa, venne realizzato nuovamente da Magnus.
Boom e straboom! Pubblico in visibilio, grida di giubilo, lacrime.
Poi però si dovettero fare i conti con gli anni trascorsi, con l'evoluzione del gesto e con il fatto che se uno rimane immutabile a se stesso nonostante l'incessante levigare della vita su di lui, significa che è un idiota.
Magnus non lo era e il risultato fu questo:





Bello bellissimo, meglio di tutti quelli che l'avevano sostituito ma altro.
Era chiaro che fosse la stessa magica mano, ma altrettanto che quei 75 erano andati per sempre, consegnati alla memoria e alla gloria.
Esempio alto.
Ora quello basso: io e La vasca.
Frutto di una improbabile grigliata su di un fiume eccezionalmente asciutto intorno al 2001 o 2, non ricordo bene, producemmo in quattro un passatempo consistente nello scrivere un raccontino partendo da alcuni strampalati paletti attorno ai quali slalomeggiare.
Uno dei quali il titolo, per tutti "La Vasca".
A differenza degli altri il mio lo mandai in giro, e dopo un po' venne pubblicato da Greco&Greco Editori all'interno dell'antologia "Nuova Narrativa".
Gratis, ovviamente.
Successivamente, non riuscendo a sbarazzarmene, lo rimaneggiai e riadattai per pubblicarlo online sul sito Liberodiscrivere, dove venne ottimamente recensito.
Mi fece acquisire talmente respect e streetcred da indurre l'editore a pubblicarmene un altro nella raccolta "I contorsionisti" uscita in libreria nel... mah, 2004 o 2005.
("L'immane succhiotto", cronaca di una fellatio lunga 100km).
Gratis, again.
Un annetto fa nuovo rimaneggiamento e riadattamento per inviarlo al sito Storiebrevi.it, che seleziona ed eventualmente pubblica, PAGANDOLI (!!!), racconti per cellulari e tablet.
Pubblicato e pagato... i primi 21 euro e rotti al netto delle trattenute ottenuti dall'attività di scrittore.
Bestiale (poi me ne hanno preso anche un altro e quindi il monte è cresciuto a ben 42 euro).
Dieci o undici anni dopo mi arrivano denari per un racconto scritto, pubblicato, riscritto, ripubblicato, triscritto e tripubblicato, senza mai deragliare dall'ossatura base che è sempre ben riconoscibile, ma sempre più differente; mutageno.
Per questo torno all'inizio del post: c'è qualcuno che ci ha campato su di un'unica idea?
Non lo so.
(Se voi sì fatemi esempi, così' riesco finalmente a regalare a qualcuno un Nuvola Nove, che sennò tra un po' li brucio in piazza).
Non valgono i giapponesi, perché loro sono specializzati antropologicamente nel rimuovere la memoria, forse ancora riflesso condizionato al necessario linimento per la ferita nucleare, e rimettono allegramente mano ad anime e manga "pilastro" senza fare una piega.
Valgono pittori che hanno dipinto un solo ritratto, al quale ogni tanto modificano l'occhio, magari la giacchetta se c'è, fino ad arrivare ad un certo punto ad averne uno diverso senza mai averlo fatto davvero, o musicisti che sullo stesso giro di basso ci hanno costruito una carriera (mhh, mi sa che qui trovarne è più facile...). 
C'è questo bellissimo film di Henry Georges Cluzot  del '54, "Il mistero Picasso", che è un compendio ideale a questo post.
Big Pablo dipinge su di un'unica superficie più e più forme, ognuna con dignità di opera a sè stante, una sull'altra senza soluzione di continuità.
Vedetelo e piangete.


Lungo p.s.

Oh, rimane il fatto che c'ho del bisogno... quindi fate del bene e andate su Storiebrevi.it coi vostri smartphone del put, mentre state in metropolitana, in ufficio, sul cesso, scegliete la categoria UMORISMO e selezionate "Scuola di Batman" oppure la famigerata "La vasca".

Leggete e godetevene, è robba della casa.
Poi se sarete in tanti a farlo ne godrò pure io con qualche spicciolo di diritto autoriale, neh.

martedì 24 dicembre 2013

Natale con i tuoi, Pasqua sul Pordoi.

È una rincorsa che dura da più di trent'anni.
Da quando la magia vera della mattina di Natale ha cominciato inesorabilmente a scivolarmi tra le dita sotto la spinta dell'ormone.
Ci ho guadagnato uno scroto peloso ma ho perso tutto il resto.
Il percorso di avvicinamento al Natale era lento e doloroso, nell'attesa spasmodica di quel momento lì, preciso, esatto, nel quale aprivo gli occhi cisposi alla penombra della cameretta cercando di mettere a fuoco le sagome dei pacchi.
Niente ha più avuto la stessa intensità e gioia beota di quelle mattine, nonostante l'accanimento terapeutico che da allora perseguo nel vano tentativo di riprodurla, niente mi è più rimasto impresso come trovare queste scatole sotto l'albero, nemmeno (cito) la visione della figa da vicino.
 




















Quindi faccio cose degradanti per la persona adulta, tipo andare per negozi di giocattoli confuso tra veri genitori o mangiare caldarroste in piazza Duomo, ma tutto questo sforzo basta appena per tenere acceso un lumicino, complice la spinta opposta e contraria della vita che fa di tutto per schiaffeggiarti in faccia la tua maturità, la tua responsabilità e tante altre cose che finiscono in tà.
Mo và caghèr!
Ridatemi uno dei miei vecchi Natali, magari mezzo, una finestrella di pochi minuti... potrei concedere come transazione paritaria di rivivere dieci pranzi coi parenti (il contraltare della gioia mattutina, il simulacro bronzeo della rottura di coglioni più pura) per un quarto d'ora di quelli là.


Cosi mi presenterei se dovessi affrontare di nuovo un cenone natalizio coi famigliari: missili atomici sulla slitta per vaporizzarli tutti alla prima banalità stronza dello zio o della nonna (cioè dopo tre minuti e venti).


 La spia del malessere ha cominciato a lampeggiare quando, col proliferare di canali televisivi, il palinsesto Vigilia/Natale mi è stato sconvolto.
Non più accurata programmazione col Sorrisi e Canzoni materno, bensì il caos catodico, ed ora a led, con film simbolo trasmessi in contemporanea (orrore!) che mi costringono a fare zapping con la morte nel cuore.
E Frankenstein Jr? Quest'anno dov'è?
E una Poltrona per due? Ci sarà? (pare di sì. ndr)
E, devo dire, da quando la visione dei millemila film americani natalizi mi è venuta a nausea: c'è troppo buonismo cariadenti, troppi "figliolo/figliola", anche il rosso dei Santa è troppo rosso.
Volete uno spassionato consiglio per rimettere tutto il baraccone decembrino al suo posto?
Guardatevi questo immortale monolite filmico qui


Qui c'è tutto per davvero.
Altro che Natale sulla 34°strada... processione, capitone e boom! eliminazione fisica dei vecchi genitori pensionati mediante bombola di gas manomessa.
Auguri di buon Natale a te Maestro Monicelli!





sabato 21 dicembre 2013

Una banda di lavacervello.

Lui.
Nient'altro che lui.
Tutti i vostri problemi li crea lui, però li risolve anche, a volte, giusto in tempo per fare spazio a nuove beghe.
Se la vita è quel bordello lugubre che è non prendetevela con nessun'altro che non sia quest'ammasso viscido che vi portate dietro tutti i giorni.
Che vi fa sentire gonfi e tristi oppure affilati e felici.
Le pene del cuore e tutte quelle balle che i poeti si sono inventati stanno in realtà lì dentro: schizzetti, liquidini che si spostano da una parte all'altra e zac! innamorati, adirati, gratificati, intimiditi.

Siete golosi, accidiosi, lussuriosi, pigri?
Non è colpa vostra: è sua.
Che poi è l'unico organo cannibale, perché quando vi gustate delle ricciolute cervella fritte è lui che  decide di farvi mangiare un suo collega e non, per dire, del pane Carasau.
Il vero problema è che ancora di lui non sappiamo molto, se non che ne utilizziamo una parte infima rispetto al tutto.
Cosa potremmo fare sfruttando tutta la cavalleria non è mica chiaro: c'è chi dice telecinesi, chi levitazione, chi un'erezione formidabilmente protratta (questa l'ho inventata).
Ci si è provato in vari modi a capire come fare, tagliandolo e scrutandolo, collegandolo a qualsiasi cosa capitasse a tiro, innaffiandolo di sostanze psicotrope ma niente.
Solo viaggi di notevole spessore, alcuni, e down terribili, altri.
Poi arriva il primo pirla (in senso metaforico s'intende) ed  enuncia una teoria perlomeno singolare: e se anzichè un amplificatore spento il cervello fosse una valvola in funzione?
Una valvola ha il compito istituzionale di parzializzare un flusso, se non fosse chiaro.
Il cervello limita la percezione della "vera" realtà, quella che possiamo solo intravedere sotto acido ad esempio, quindi la faccenda è sottilmente ma decisamente differente: non dobbiamo cercare l'interruttore, ma rimuovere il blocco.
Come?
Boh.
Io personalmente ho da tempo deciso che, una volta perso ogni barlume di efficienza fisica, diciamo verso i settant'anni (se ci arriverò), quando tutte le cartucce saranno già state sparate, mi dedicherò all'esplorazione di ogni tipo di droga o sostanza potrò procurarmi (e con la pensione minima sarà roba scadente, già lo so).
Non voglio andarmene senza aver dato un'occhiatina dall'altra parte.
Per questo sono sempre stato affascinato dalle sperimentazioni di Timothy Leary, John Lilly e tutta la masnada di intellettuali statunitensi che negli anni'60 sperimentavano acidi e immersioni nelle vasche di deprivazione sensoriale alla ricerca di una risposta.
E da quella di Aldous Huxley, documentata qui dentro, in questo testo per me guida:





È appena il caso di aggiungere che la frase del titolo deriva da un aforisma di William Blake "Quando le porte della percezione si apriranno la realtà apparirà per come è: infinita", ripresa poi anche da Jim Morrison per trovare un nome degno al suo complessino.
(Blake meriterebbe da solo un post, perchè era un fantastico tuttologo: incisore, poeta, scrittore... avete presente quella che forse è la poesia britannica più conosciuta? tigre, tigre, splendente di luce,
ecc? Roba sua).

Huxley dunque.
Nel 1954 si siede su di una sedia, assume una dose di lsd sotto stretto controllo medico, poi comincia a parlare di quello che vede e sente.
"Sentire" come "feel", ché noi purtroppo un verbo così puntuale per descrivere quella cosa non l'abbiamo; forse "percepire" ma non suggerisce il lato tattile-sensoriale della faccenda, secondo me.
Tutto viene fedelmente trascritto e diventa un manuale di orientering per dimensioni alternative.
Quella che Huxley descrive non è che una versione ultra potenziata della realtà, quella che da millenni culture di ogni tipo cercano di penetrare attraverso la meditazione, l'ascesi, la preghiera e tutte le mille altre cose che sapete.
Siamo insomma molto limitati, come ad esempio con l'olfatto.
Il nostro ci sembra sufficiente ma in confronto a quello dei cani è più che rozzo, più che inefficiente: a noi annusare una cacca provoca disgusto, (a parte qualche cultore che deve ringraziare comunque sempre lui, mr.brain)  mentre loro vanno oltre il primo semplicistico livello, hanno neurotrasmettitori capaci di smontare quello che noi definiamo banalmente"odore" in un serie completa di dati che vengono analizzati e memorizzati. 
Stessa cosa con la visione delle cose e con la sua comprensione, che ne è la chiave: potrebbe essere stereoscopica, cubista quasi, e permetterci di vedere il tutto contemporaneamente da ogni direzione, invece siamo poveri cristi che si affannano dietro le stronzate quotidiane.
È tutto già qui, nessuna magia, solo che non sappiamo come fare.
Del resto anche mettere in mano un semplicissimo smartphone ad un uomo nel 1930 o 50 o 60 ci avrebbe fatto apparire magici, invece è bastata un'intuizione ed ora è normale per chiunque.
Quindi cosa voglio dire: drogatevi, attaccatevi elettrodi al cranio, masticate funghetti, sperimentate e prendetene nota, per la legge dei grandi numeri almeno uno arriverà prima o poi a capire come sbloccarci e poi a spiegarlo a tutti.
Se anche a voi avvince il tema, vi consiglio un vecchio film di Ken Russell interpretato da William Hurt nell'80, questo:




È basato proprio sulle ricerche di cui parlavo sopra e si fa ancora vedere con interesse.



p.s.
Un Nuvola Nove in regalo a chi leggerà il post sotto effetto.


mercoledì 18 dicembre 2013

Il paese dei cretini.

L'altro giorno un 31enne è morto in pieno centro a Milano, investito da un furgone.
Lui stava su una bici e ha scartato a sinistra per evitare uno sportello aperto distrattamente mentre sopraggiungeva il mezzo.
Ciac. Morto.
Un attimo prima si faceva i cazzi suoi, un attimo dopo era una sagoma sotto un lenzuolo buttato in mezzo ad una strada che già fa schifo normalmente, perché era un naviglio e adesso una merda, e in quel momento ancora di più.

"Non l'ho visto", ha detto quello che ha aperto la portiera e io gli credo.
Gli credo perché io giro in bici e di porte aperte all'improvviso, senza guardare, me ne trovo davanti una manciata ogni giorno; e ogni volta nessuno "mi ha visto".
Nessuno vede perchè nessuno guarda.
Nessuno guarda più niente in Italia
Nessuno dice più scusa quando sbaglia, ma tutti ti mandano a fanculo a prescindere.
Tutti fanno ciò che gli pare manco fossero soli nel deserto.
Non mi interessa qui scagliarmi contro le amministrazioni comunali che non fanno una beata minchia per la mobilità, lo fanno già miriadi d'altri blog di ogni stazza, mi interessa scagliarmi contro quei genitori che dicono al figlio la frase magica, quella che ci condanna e porterà all'estinzione (finalmente): "FATTI FURBO".
Ha fatto più danni questa frase che vent'anni di governi predatori, anzi i governi sono stati predatori perché composti da persone cresciute sentendosi ripetere FATTI FURBO da genitori stronzi.

Mi dispiace non avere interesse a riprodurmi non perché trattasi di vocazione negata, ma perché non potrò con estrema soddisfazione dire un bel giorno al piccolo "fatti tonto", "sii scemo", " se salti la fila sei un coglione".
Del resto la gente è cretina, me ne accorgo drammaticamente utilizzando ebay: per quante precauzioni possa prendere nel descrivere quel che vendo c'è sempre il cretino che mi domanda cose scritte chiaramente a caratteri cubitali.
Se scrivo che non spedisco mi si chiede quanto gli costa la spedizione, se scrivo che non ho la scatola originale mi si chiede se ho la scatola originale.
La rete è un formidabile amplificatore di cretini.
Perche?
Perché ognuno pensa che per lui si farà un'eccezione, perché lui è più furbo, perchè quando qualcuno doveva spiegargli come funzionavano le cose non l'ha fatto essendo a sua volta cretino.
Il Prof. Tozzi ha enunciato però una teoria antropologica, nel 1991, il cui passaggio più significativo era "tanto prima o poi gli altri siamo noi", che quindi mi informa di essere cretino anche io come tutti gli altri, è una triste questione biologica; siamo fatti così (sì, anche tu che leggi se te lo stai chiedendo: sei un/a cretino/a).

E questo mi spaventa, perché ho paura che i miei bravi "fatti furbo" sentiti e risentiti nel corso della mia vita possano aver lasciato comunque un segno, possano farmi ignorare che c'è qualcun'altro intorno a me, possano un giorno farmi aprire la portiera mentre sopraggiunge una bicicletta.
Non voglio vedere lenzuola e corpi stesi sopra strade di merda solo perché in giro è pieno di cretini.

martedì 17 dicembre 2013

La pentola a pressione.

L'ho sempre temuta, sempre guardata con sospetto fin dalle prime volte.
E non l'ho mai capita veramente, mai saputo quali misteriose forze la governassero.
La pentola a pressione.



Quando ero piccolo io l'oggetto era di quelli premianti, la casalinga non sovralimentata dal vapore era una povera sfigata, una massaia anzi, nell'accezione più tordellesca del termine.
 

 
Era il corrispettivo femminile dell'uomo che maneggia il trapano sì, ma con la percussione.
Dopo di lei solo il visone, la Coppa dei Campioni delle mogli italiane dell'epoca, anche se molte si sarebbero fermate alla Uefa cioè la volpe grigia (o rossa).
Se ne stava là, in mezzo alle altre ma molto più tronfia, più lucida, conscia della forza esplosiva che dimostrava sbuffando e soffiando dai suoi orifizi in acciaio 18/10 Aeternum, mentre lessava nella metà del tempo quel che le stava dentro.
Nei confronti del pentolame plebeo che la circondava la pentola a pressione manteneva un regale distacco giustificato dall'essere il top di gamma: rispetto ad un'umile padella mi ha sempre dato l'idea di un anabolizzata steroidata con esoscheletro, un effetto che ritrovai poi nella mia adolescenza in esempi automobilistici come questi qua sotto:




205 base vs. 205 Turbo 16: pignatta semplice vs pentola a pressione


Sono auto anni '80 perché se pensate che vivo nel passato non avete tutti i torti: il presente fa schifo e il futuro non esiste, rimane altro?


Insomma ci guardavamo con rispetto (io, lei non mi calcolava).
Quelle poche volte che la trovavo leggermente in déshabillé, fredda e col coperchio appoggiato di lato, le scrutavo le pudenda cercando di capire, ma senza mai il coraggio di toccarla.
Timido e inesperto.
Quando poi mia Matre mi esortava con voce dolce: "Dai cretino, spegni la pentola a pressione!", io da una parte covavo odio nei suoi confronti per la maniera, dall'altro mi cacavo, avvicinandomi al fornello come oggi alla sede di Equitalia.
E quasi mai riuscivo a ruotare il pomello, impegnato com'ero a ripararmi la faccia perché certo che l'ordigno, proprio in quel momento, sarebbe esploso.
Credo sia nata lì nella genitrice la convinzione che non avrei vinto il Nobel.
E in me una certa avversione per la cucina, intesa sia come luogo che come occupazione.
Ora la situazione si sta ripresentando.
Perché il passato non ti lascia mai veramente, trova sempre il modo di riacchiapparti prima o poi.
Sappiatelo, voi ottimisti dei miei collioni, non è mai finita!
La Dolce, nell'ottica di una riorganizzazione energetica se ne sta per dotare.
Ed io, già lo so, verrò richiesto di spegnere il fornello una volta o l'altra ed allora succederà di nuovo che, riparandomi la faccia e trascinando la ciabatta, mi avvicinerò al pomello del gas temendo per la mia vita e per l'integrità del minuscolo appartamento.
Già nel 2014 verrò sbattuto fuori da uno, non vorrei essere espulso esplosivamente anche dall'altro: mi rimarrebbe solo la vecchia Matre (che ha ancora la vecchia pentola a pressione) per ricominciare un ciclo vizioso periodico, cioè infinito.
E la colpa è tutta di questo stronzo qua sotto, Denis Papin:


Nonostante la capigliatura da fan dei Led Zeppelin questo a fine 1600, quasi millesette non ti va ad inventare l'ordigno infernale che trecento anni dopo segnerà la mia vita?
Non avevo già abbastanza problemi?

Non potevi inventare la chitarra elettrica invece, con quella parrucca?
Maledetto.

lunedì 16 dicembre 2013

Figatine & figatone (Gregorio Jazz Inside).




O di qua o di là.
Le figatine e le figatone dividono i fanciulli dagli adulti, quelli che hanno un'idea che sembra figa (fica, se siete sub Po e vi fa sentire più a casa vostra) e apparentemente lo è ma poi te la dimentichi (cioè il 99 % di quello che viene postato su Facebook aka la Fogna dei Semplici), e quella che magari al momento impressiona meno ma poi resta stampata nella mente.
La prima è una figatina, la seconda una figatona.
Questo che vedete qui sotto, giratovi da designfaves.com, è un tipico esempio di figatina.
Il successo di un sito, di un'iniziativa mediale e mediatica passa sempre attraverso di esse, purtroppo, roba di presa immediata che apre il sorrisone sulla faccia dell'utente che poi corre a postare per la sua cerchia di amici e avere due, tre minuti di successo tra foto di gatti e selfie in ufficio per sentirsi connesso col mondo.




Capito il genere?
C'è qualcuno che ha avuto l'idea di mettere un costume ad un dipinto classico... uellà! Figatina!
Chissà se ci guadagna?
Tra dieci minuti è già finito, terminato, sostituito dalla figatina successiva.
Lo trovo un percorso invero squallido, come le tracce lasciate sull'erba delle aiuole da quelli che vogliono fare meno strada possibile e tirano dritto sul prato, mollando il sentierino lastricato. 
Questo nonostante io stesso abbia esclamato figatina! vedendole.
Se proprio vogliamo pensare ad una figatona declinata sul motivo "taroccamento di immagine preesistente" io su Facebook posterei quest'altra cosina di Paloma Blanco, intitolata Pornotapados,  molto più sottilmente maliziosa, cerebrale, meditata.





Scene tratte da giornaletti porno, pagine ampiamente mitragliate dagli umori dei loro antichi lettori che rinascono a nuova vita.
Con un po' di fantasia sotto il colore si intuiscono le alternative all'immagine posticcia, gli ingroppi e i suffloni abilmente celati, suggeriti da destabilizzanti espressioni lontane dall'azione che vediamo compiersi: una sorta di stereogramma boccaccesco in glassa pop/caciarona.
Se vi interessa, la rivista è in vendita da Belleza Infinita (con una z), per me merita, ed essendo una figatona ve la ricorderete.
Inoltre in questi giorni sono attirato dall'opera che Casa Bertallot sta compiendo nel settore comunicazione dopo essere stato sbattuto fuori a calci nel dedrè dalla Rai, e sensibile al nobile tema della contaminazione che veniva ampiamente esplorata nel suo vecchio programma Raitunes:musica/disegno, musica/letteratura, musica e qualsiasi cosa.
Io, nel piccolo, desolante, disperato spazio concessomi da 'sto blog non posso fare molto in questo senso se non proporvi un reading di Pietro l'Aretino mentre scorrono le pagine tratte da Pornotapados, per rendere indimenticabile una serata tra amici nella quale volete fare colpo su qualcuno con le vostre doti artistiche, magari esordendo col verso secondo, primo libro, dei suoi Sonetti Lussuriosi datati 1526:
 

                                       "Mettimi un dito in cul, caro vecchione,
                                        e spinge il cazzo dentro a poco a poco;
                                       alza ben questa gamba a far buon gioco,
                                             oi mena senza far reputazione." 



Provate  e poi fatemi sapere (un Nuvola Nove in regalo, as usual)
Chiudo con un esempio dolorosamente personale di tentata figatona divenuta figatina una volta realizzata.
Spronato dal corto vincitore di premio che potete vedere cliccando lì a fianco (e da un altro che forse posterò, premiato anche lui e subito successivo) e dall'idea di contaminazione, partorii la seguente cosa: girare un corto seguendo le regole musicali relative al ritmo, applicandole alla ripresa.
Come?
Assumendo che battere e levare sono i costituenti il ritmo musicale e che spiegare come funzionano mi fa fumare il cervello, all'epoca escogitai un tipo di sceneggiatura che voleva seguire questa costruzione ritmica assegnando al battere il ruolo della battuta pronunciata ed al levare il silenzio che la segue.
Intitolando il corto "Gregorio Jazz, corto in Levare" volevo sottolineare la caratteristica della recitazione in un "levare" visivo dei due attori; praticamente quando uno parlava ad essere inquadrato era l'altro che ascoltava la battuta e viceversa.
Tutto così, in una specie di controtempo sincopato che credevo mi portasse alla figatona.
Anche perché il soggetto prevedeva il misterioso risveglio del protagonista con la voce di Louis Armstrong anziché la sua, seguita dall'accettazione del fatto con l'aiuto della moglie.
Invece fu la più clamorosa delle figatine, tanto che nonostante lo sforzo di doppiaggio e sincronizzazione fatta senza soldi ma con molto impegno non lo iscrissi da nessuna parte e lo dimenticai in qualche hard disc, povero figlio deforme e visionario.
Nessuno lo ha mai visto prima, aggiungo, e riguardandolo a distanza di anni ne gioisco perchè è una cacata invereconda, uno strano bordello fuori sincrono... magari interesserà a Bertallot, chi lo sa?
 

                                        GREGORIO JAZZ (Corto in levare) - 2009? Boh.


domenica 15 dicembre 2013

Evoluzione Nagaiana

Perchè Charles Darwin sì e Go Nagai no?
La teoria dell'evoluzione enunciata dal primo è stata universalmente accettata, quella proposta dal secondo ha fruttato al suo autore solo il plauso entusiastico dei lettori di manga, ma è rimasta confinata a Devilman.
Questo è Devilman, alias Akira Fudo:


Io, tanto per dire, parteggio di brutto per il giap, non fosse altro perché grazie ai suoi robottoni (il benemerito si è inventato anche i Mazinga e i Goldrake, cioè i miei riferimenti etici di allora insieme a Niki Lauda e Alberto Lupo) la mia infanzia è stata molto migliore di quanto sarebbe stata col solo Darwin.
Insomma siamo sempre al vecchio adagio vox populi, vox dei: s'è scelto Darwin e nemmeno l'avvento di Nagai ha scalfito l'abitudine consolidata.
Mi fa pensare alla Bibbia vs. Scientology.
La gente da un bel pezzo fa cose incredibili, senza fiatare, nel nome di un tizio che cammina sulle acque, che con un pane ed una triglia ne mette a tavola cento, che muore e risorge; però poi sghignazza inorridita se gli si parla di viaggi extracorporei e del malvagio Xenu, dal quale tutti i nostri guai di umani derivano secondo Hubbard.  
Stessa storia svecchiata un po', secondo me, ma di peso identico.
Dato che dopo questo teorema che ho giustamente grassettato finirò all'inferno, è bene che vi spieghi in anteprima cosa ci troverete o luridi peccatori.

Devilman esce in Giappone nel 1972 per l'editore Kodansha e narra le gesta del giovane Akira Fudo, del cui corpo prende possesso il diavolo Amon, per lottare contro i demoni al risveglio da millenaria ibernazione nella forma di Devilman.
Al fatto non è estraneo l'amico Ryu, che si rivelerà poi essere Satana e innamorato di lui.
Questo in estrema sintesi.
E già sarebbe sufficiente visto che, mescolando temi quali la violenza, la paura del diverso, l'esoterismo, l'omosessualità, (in un fumetto nel 1972 cazzo!!!) Nagai dimostra di che pasta fosse fatto: grano duro trafilato al bronzo.
Ma la parte interessante qui, quella che collide con Darwin, è la teoria che sorregge tutta l'impalcatura del manga e che spiega la causa della sovrappopolazione mondiale: perché la specie umana viaggia sui sette miliardi di esemplari e il resto delle creature viventi invece si autoregola?
Perché ogni specie ha un predatore naturale che si incarica di matenere l'equilibrio; tranne una.
Ma in realtà questa è un'anomalia, un macroscopico granello di polvere nell'ingranaggio oliato della natura, perché la specie umana un predatore che la regolava ce l'aveva nell'antichità: i demoni.
I demoni si cibavano di uomini, ma furono messi fuori gioco dall'Era Glaciale che li ibernò, lasciandoci liberi di moltiplicarci senza controllo.
La prova della loro esistenza si può trovare nelle paure istintive che gli uomini ancora conservano, come quella del buio, e che non sono altro che frammenti di memoria trasmessici dai nostri avi preistorici: il timore del nostro predatore.
E nel '72 questo fetente nemico si stava scongelando, riprendendo a fare ciò che per lui era naturale.
Go Nagai l'aveva pensata bene la teoria, fila tutto, poco da dire.
E poi l'aveva disegnata col suo tipico stile scarno, ipercinetico, sceneggiandola col gore e lo splatter che solo i giapponesi potevano permettersi senza censure quarant'anni fa.


A questa vi affezionerete ad esempio, ma alla fine finirà così senza preavviso...
  
Io la serie la lessi tutta negli anni novanta, edita in 14 albi da Granata Press e fu un colpo nello stomaco, perché Nagai fa fuori tutti senza pietà, anche i personaggi principali, e lo fa in modo orrendo senza lesinare particolari, sempre con quel cazzo di tratto semplice semplice ma sempre cupo e presago di tragedia.
La violenza cresce di numero in numero, perché i demoni prendono le sembianze degli uomini per ucciderli, provocando una classica e delatoria caccia alle streghe della quale saranno vittime anche i famigliari del protagonista.

Il tono della serie era così adulto che il cartone animato che ne venne ricavato fu decisamente edulcorato, sia nelle situazioni sia nell'aspetto del protagonista assai meno infernale dell'originale, per non far cagare sotto i ragazzini e permettere loro di dormire almeno otto ore per notte.


Molto più rassicurante messo così...

Rimane a tutt'oggi una delle poche opere a fumetti che mi hanno fatto sollevare la testa emotivamente strapazzato, dopo aver chiuso l'ultimo albo. 
Ne realizzarono anche un lungometraggio nel quale il Devilman effeminato qua sopra si prendeva a mazzate con Mazinga Z, ovviamente un must have per tutti i sognatori.
E poi successivamente altri Oav, che non ho visto e di cui quindi non parlo (strano su internet che qualcuno non parli di qualcosa che non sa, vero?).
Se non l'avete mai fatto è d'obbligo il recupero e la lettura di questa pietra miliare del fumetto mondiale, sennò m'incazzo e non scrivo più niente.

sabato 14 dicembre 2013

Frìcs e formulauàn

Freaks e Tod Browning.
Un film ed il suo regista.
Un film per il quale il suo regista si bruciò la carriera, sarebbe più corretto aggiungere.




Freaks significa letteralmente "scherzi di natura" ed è esattamente ciò che nella pellicola ci viene presentato, una combriccola di fenomeni da circo in un circo, appunto, senza mediazioni pietiste, senza l'amato e stucchevole lieto fine caro agli americani a salvare un malsano triangolo amoroso tra il nano, il forzuto e la bella trapezista.
Eccezionale allegoria della diversità e del timore che questa sempre genera, al netto di tutte le ipocrisie con cui da essa ci facciamo scudo.
Si consideri che la pellicola risale al 1932, che tutti i freaks che vi appaiono sono veri artisti circensi e si traggano le dovute conclusioni sul perché il regista ebbe i suoi guai, tali per cui nessuno, poi, volle finanziare alcunché provenisse dalle sue pensate cinematografiche.
E si consideri anche che la potenza del film fu tale da costringere il regista a tagli di mezz'ora rispetto a quello che oggi comunemente chiameremmo Director's Cut per permettergli di uscire in sala negli Usa (e giusto lì, perché in Inghilterra e Germania fu visto solo negli anni '60, addirittura dieci anni dopo da noi).
Come spesso accade c'è stata poi la rilettura, la rivalutazione, l'osanna (ben dopo la morte del suo artefice) e oggi Freaks è stabilmente inserito nelle 50 pellicole cult del ventesimo secolo.
Nessun onore al coraggio di Browning nel pensarlo e realizzarlo, almeno non nel suo tempo, ché, come già ho detto da un altra parte, tutto ciò che arriva postumo serve ad un cazzo.
Spiace.
Mi punge quindi vaghezza di caricarmi di tutte le intuizioni di Browning e adattarle ad un mio personale Freaks tecnologico applicato alla Formula1.
Che c'entra dite?
Niente.
È la scusa buona per appiccicare un paio di foto di scherzi di natura meccanici, forme molto veloci ma anche molto inusuali, alcune con un lieto fine altre meno.
Rispetto al buon Tod io poi non rischio nessun embargo da Hollywood, quindi procedo sereno.

Il primo fenomano da baraccone qui è francese.
Tutto francese: squadra (Ligier), pilota (Jacques Laffitte), sponsor (Gitanes), motore (Matra).
Ah, la grandeur, peccato che il risultato in quel '75 fu grottesco:


Ligier Js5: la prima f.1 con cabina armadio.


Poco da ridere anche da parte degli italioti, magari ferraristi.
Non è che il cavallino abbia sempre sfornato ciambelle con buco giottesco neh?
Guardate un po' qua:


Ferrai 312 B3 del 1973. La chiamarono "la Spazzaneve"...
Il pilota che si vede in foto è così fuori misura perchè non si tratta di Arturo Merzario, che la guidò all'epoca sua e che era alto 1 e 60, ma del tristo miliardario Usa di turno che se l'è comprata per giocare, indifferente al fatto che essere cresciuto ad hamburger e patatine poteva creargli sia problemi dimensionali che scherno da parte degli spettatori.

Gli inglesi hanno fatto anche loro delle belle porcate, ma in questo caso preferisco ricordare due freaks più affascinanti che repellenti: la Brabham Bt48 e la Tyrrell P34, una del '78 e l'altra del '76,  concretizzazioni pratiche estreme di una primaria necessità: avanzare il più velocemente possibile.
Stesso scopo, strade diametralmente opposte per raggiungerlo:
 
La prima (e ultima) F.1 col ventilatore. La mezzacapa che si vede è di Lauda.
 
La prima (e non ultima) F.1 a sei ruote. Curva e fumacchia Scheckter.


Dai, coi tedeschi è come sparare sulla croce rossa con un ak47... gente che gira con sandalo e calzino bianco cosa poteva partorire nel settore?
Infatti la Kauhsen girò in test privati ma non corse mai, per fortuna, nel 1979.
 
La prima F.1... (F.1?). Credo guidi il nostro Brancatelli, a giudicare dal casco.
  
Concludo poco prima di diventare stucchevole con un freak tutto nostrano.
Non una macchina intera ma solo un pezzo, un motore.
Progettato da un ex ingegnere Ferrari, Claudio Rocchi, che evidentemente indulgeva fin troppo col Lambrusco, aveva la particolarità di essere un 12 cilindri stellare, uno schema conosciuto nel campo dell'aviazione con motori a scoppio e scelto perché, come è intuitivo, permette di accorciare la lunghezza del blocco e poter così giocarci meglio piazzandolo in un telaio dove meglio pare.
Eccolo in tutta la sua stravaganza tecnico morfologica: 

W12 f.1. Capito perché si dice che è "stellare"?

Sembrava l'uovo di Colombo.
Purtroppo anche l'uovo migliore, se non incontra una padella, si spiaccica per terra anziché tramutarsi in frittatina e così 'sto ferro, senza il becco d'un quattrino per lo sviluppo, erogava 150 cavalli meno dei suoi concorrenti in quel lontano 1989.
Hai voglia a rischiare di ammazzarti ad ogni giro se vai a cento all'ora in meno sul dritto...
Ah, per soprammercato si rompeva solo a guardarlo.
Corse, si fa per dire, un paio di sessioni di prova prematuramente interrotte.
Poi venne smontato da dove stava, una vettura che si chiamava Life, e se ne persero le tracce; probabile faccia oggi da fermacarte sulla scrivania di qualche patito della meccanica fine che, analogamente alla pasticceria fine, si mostra agli ospiti solo in rare e particolari occasioni.
Preferibilmente col tè.


p.s.

Un Nuvola Nove in regalo a chi riprodurrà con la bocca il suono che crede possa aver fatto questo motore.

giovedì 12 dicembre 2013

L'uomo che rutta storto

Non lo so, non rompetemi le balle.
Volevo scrivere di pittura metafisica ed invece un equivoco sonoro con la Dolce via skype ha creato il titolo del post.
Che poi tanto sbagliato o fantasioso potrebbe non essere, trattandosi di Giorgio de Chirico.
Avete presente Giorgio de Chirico?
Eccolo qua:
  
 
Uno con una faccia simile è fortemente indiziato di essere stato uno che ruttava storto in effetti e nessuno avrebbe avuto niente da ridire perché quando dipingeva tutti muti.
Non dipingeva canestre di frutta più vere del vero o tagli concettuali e la prospettiva poi se la infilava allegramente su per il culo: faceva di meglio.
Dipingeva una dimensione parallela, metafisica appunto, tanto che l'etichetta di surrealista che Andrè Breton voleva attaccargli mentre de Chirico esponeva in Francia fece incazzare Giorgione, che lo mandò pubblicamente a cagare per fatti loro di artisti, probabilmente ruttando storto. 
BRAFO Giorgio, diglielo ai francesi!
Vi segnalo, qui, la puntata di una trasmissione meritoria degli anni '70 incentrata su de Chirico, parte di un ciclo dedicato agli artisti nell'atto di fare arte pensata e condotta dal pedante Franco Simongini,  per chi volesse vederlo muoversi (poco) e pensare un dipinto.
"Come nasce l'opera d'arte" si intitolava il ciclo, e cadesse il pistolino in Rai a chi non ha ancora deciso di raccoglierla in cofanetto prima che i master si trifolino. 
Ma andiamo avanti: la metafisica appunto.
Oltre la fisica, se ci limitiamo all'etimologia, ma per fortuna qui dentro ce ne fottiamo dell'etimologia, perché l'arte è mettersi davanti a qualcosa e andare altrove senza muoversi.
Voilà, ecco tre esempi del famoso ciclo metafisico delle Piazze d'Italia:














Prima di dire che lo facevate anche voi, mettete l'indice in uno schiaccianoci e premete: il dolore dovrebbe schiarirvi le idee e farvi più saggi.
Certo io sono di parte perché questi rappresentano i miei dipinti d'elezione, in assoluto.
Perchè quel che c'è è quel che manca.
Mi spiego: i tratti somatici caratteristici della città italiana li cogliamo tutti, ma le prospettive
taglienti e soprattutto la luce di un'ora e una stagione imprecisata riempiono le tele di mistero, appunto, metafisico.
Questo per me; ma qui dentro comando io e quindi è così e basta.
Quello che riesce a fare il maestro è togliere l'aria; tutto è sospeso nel tempo e nello spazio ed io è lì che spero di finire dopo morto, in una piazza così, per vedere dove va la bambina col cerchio e per girare l'angolo e scoprire finalmente chi proietta quell'ombra e cosa c'è dietro.
Un paio di cose se vi avessi smosso una curiosità, magari nana magari no.
Se siete di passaggio a Milano (a Milano si è sempre solo di passaggio, a parte qualche prigioniero ben felice d'esserlo) andate nel giardino dietro la Triennale, magari approfittando per l'aperitivo, perché so che siete superficiali.
Avanzate sull'erbetta fino in fondo, stringendo l'agognato beverone e guardatevi quest'opera qui:


Ho scelto volutamente una foto di merda, così andate a vederla dal vivo.


Si chiama "I Bagni Misteriosi" ed è l'unica opera scultorea all'aperto (al mondo) del Giorgione.
Sorseggiate, meditate, sorseggiate: questo è ciò che ci attende di là


p.s.

Considerate inoltre che il tipo intellettual meditabondo ma un po' buttato via ha forte presa sull'altro sesso, o sullo stesso.
Se invece nessuno vi avvicina dopo dieci minuti di osservazione sentitevi liberi/e di ruttare storto come il Maestro.
Avrete comunque imparato qualcosa.




Lavarsi la faccia

Sono le 00:59 e fuori c'è una bella nebbia come ormai raramente se ne vedono a Milano.
Le luci sembrano rossetto sbavato, le auto passano frusciando, figure infagottate e furtive si muovono sui marciapiedi.
Meraviglia.
Due son le cose che mi vengono in mente nelle notti nebbiose: il racconto che ne fa Calvino in Marcovaldo, con lui che sbaglia fermata per colpa della nebbia e scende dal 30 in un luogo misterioso che dovrebbe essere sempre la solita città e invece è un posto sulfureo e silenzioso dove fare strani incontri (ma quella era la nebbia vera di trenta e rotti anni fa, non questo surrogato), ubriacarsi in un'osteria sospesa nella caligine e finire poi sulla pista dell'aereoporto scambiandone le luci per un'autobus e il fatto, per me increscioso, che ora sia sparita e ci abbia tolto la memoria della magia (ma regalato edifici puliti, perchè all'epoca dei nebbioni da smog, stavano una zozzeria).
Comunque volevo scrivere di Gagarin, perché sto spendendo tempo a costruire un testo fantascientifico che forse mi frutterà reddito nel prossimo futuro e quindi mi andava, però sono incocciato nella solita catalessi da massaggio e depongo la tastiera: mi scuserete.
Cioè, spiego: per dormire vado su youtube a cercare video di massaggi senza musica, dove sia udibile il cic e ciàc dell'olio steso tra schiena e mani e in tempo zero il coma mi assale.
Chissà quale parte del mio cervello va fuori uso in questi frangenti. 
Domattina riprendo il discorso, vedremo se la nebbia sarà ancora là fuori.
Ne dubito.
'Notte.

Zzzzz


Buongiorno.
Sono le 9:04 e la nebbia resiste.

Gagarin allora.
Cosa volevo dire stanotte su di lui?
Ah, sì, che inizialmente volevo prendermi una maglietta vista in un negozio di biciclette estreme, colla faccia del cosmonauta dentro il casco, il nome scritto in cirillico e una bella falce e martello.
Solo che la vendevano esclusivamente in rosso e non volevo passare per il comunistone che mai sono stato e mai sarò, quindi ho abbozzato.
Gagarin è stato il primo uomo a farsi un'orbita attorno al pianeta nel '61, chiuso in una tinozza improbabile che solo a vederla si capisce il coraggio, la Soyuz.
Non poteva fare niente se non guardare fuori e sperare che giù non avessero esagerato con la vodka, perché era tutto telecomandato da terra.

Claustrofobia portami via.

Gli americani si presero una strizza tremenda quando appresero la notizia, perché pensavano (oh!) di essere i migliori e invece no,  ma soprattutto vedendo con che attrezzo era andato nello spazio Yuri.
Preventivamente aumentarono anche loro il consumo di vodka, hai visto mai.
Gagarin non tornò più nello spazio e si schiantò in circostanze mai chiarite nel '68 a bordo di un Mig.
Cosa ci rimane di lui, oltre alla maglietta?
Qui niente, a Washington "solo schifo e dolore" (cit.), in Russia parecchio perché è un eroe nazionale.
A Mosca per esempio c'è questo in Piazza Gagarin (e dove sennò?)
 
L'ho messo extra large perché si apprezzino i 40m. d'altezza.

 Grazie alla naturale ricchezza del sottosuolo russo hanno pensato di farlo in titanio, quindi pesa poco ed è coerente con lo scafo della navicella che lassù lo scarrozzò.
Pensate non sia abbastanza per il coraggioso pioniere che rischiò la vita per portare l'umanità tutta nell'era spaziale?
Infatti c'è dell'altro: gli lavano anche la faccia.


Tralalà un bel peeling.








venerdì 6 dicembre 2013

Ciao e poi basta.

Non esistono i libri che ti cambiano la vita.
Chi lo sostiene mente sapendo di farlo (e se non lo sa, allora è un cretino).
A parte la Bibbia con psicotici che hanno avuto genitori bigotti, nessun libro fa altro che regalarti della sana sospensione d'incredulità (quella che al cinema ti permette di berti tutto con soddisfazione senza alzarti a metà del primo tempo o dopo la prima sparatoria) e nient'altro.
Se è scritto particolarmente bene può arrivare a mostrarti una strada diversa, ti prende per mano dando un nome a ciò che vedi, indicandoti qual'è la forma delle nuvole o quello che in quel preciso momento sei più sensibile a recepire ma non altro.
Tra quelli che mi hanno indicato qualcosa c'è David Foster Wallace.
È stato un grande scrittore, un goffo essere umano, un competitivo tennista e, alla fine, un corpo appeso ad una corda scoperto dalla moglie a dondolare nella penombra.
Respect, in ogni caso.
Tra le varie cose che ha scritto c'è Infinite Jest, considerato la vetta della sua produzione, che è un immane balenottero di quasi 1300 pagine, la metà delle quali di note a piè di pagina scritte pure in piccolo.
Viene considerato un dildo per iniziati, perché se spaventa a vedersi, spaventa ancor di più ad affrontarsi per la dedizione che richiede nel penetrare il mondo che ci dipinge attorno e tutto ciò che ci infila dentro, scritto da dio dalla prima all'ultima riga (da Wallace e dal suo Editor ovviamente, considerate sempre questo "irrilevante" aspetto dell'editoria....) non vi mollerà più neppure dopo averlo terminato, se ci arriverete.

                          Non fatevi ingannare dal fuori scala di quest'edizione americana, perché quella nostrana di Einaudi ha uno spessore di ben 7cm. Provate a misurare un libro che vi pare "ponderoso" e capirete.



Ma non è questo che mi ha indotto a sistemare Foster Wallace là, sul ripiano buono della cameretta, bensì il ben più umile racconto "Per sempre lassù" contenuto nella raccolta "Brevi interviste con uomini schifosi", che è questa qua:





Bene.
"Per sempre lassù" è il resoconto di un tuffo in piscina da un trampolino, eseguito da un quattordicenne in un'assolata domenica.
O meglio, da eseguirsi, perché in dodici paginette ci viene mostrato tutto il tragitto da terra alla pedana (con quel particolare sul punto di stacco che già di per sè vale il prezzo del biglietto), una sorta di via crucis indotta dalla paura dell'altezza che va aumentando, dalla folla che preme sugli scalini di metallo, dai profumi che si spandono nell'aria.
Durante la lettura si sente l'odore, la massima aspirazione per uno scrittore.
Farvi sentire l'odore.
E poi, alla fine, quando la prosa si fa così vibrante da diffrarsi come un raggio di luce nella poesia tanto che voi non ci capite più niente, quando non è più lettura ma pura sensorialità... puff!
CIAO.
Proprio così, ciao.
Nell'attimo in cui annuncia il salto (metti i piedi nella pelle e scompari), il salto è già finito, e con lui tutto il mondo che per dodici pagine hai abitato, risucchiato in un mulinello lungo quanto un saluto.
Ciao.
Punto e stop, racconto finito, come il telefono che suona libero nell'orecchio dopo una comunicazione importante, quando l'unico altro suono che senti nelle orecchie è quello del tuo battito.
Meraviglia.
Un racconto che acquista potenza pagina dopo pagina, fino a diventare un colosso, viene arrestato in un attimo dalla mano aperta di un neonato, minuscolo, apparentemente indifeso.

Come cazzo gli è venuta non lo so e non lo voglio sapere.
Invidio tutti quelli che non l'hanno ancora letto per quel momento supremo, quello in cui si schianteranno su quel "ciao", minuscolo, semplice, invalicabile.
E poi per un attimo lo odi per tanta capacità, sapendo che mai potrai fare di meglio.
L'odio destinato solo ai più grandi.
La sensazione provata leggendo la spettacolare conclusione di quel racconto è straordinariamente affine a quella che provo osservando quest'immagine qui sotto, trita e ritrita, ormai lisa come un gomito del golf dopo essersi appoggiati per mesi al davanzale :




Ma sempre pregna di significato, direi.
Tanto per ricordarci che i Cinesi non sono solo quelli che ridono sempre anche se li mandi affanculo, o quelli che ti vendono le cose ad un quarto del prezzo (infatti poi si scassano entro la giornata) senza conoscere il significato della parola "fattura"(né in italiano né in mandarino).
Sono predatori con buone maniere, non tutti, non sempre, ma sono anche quelli che fanno una strage e poi fanno finta di niente, anche col mondo intero a guardarli.
E sì, l'immagine è storica, ma anche il fatto che lo studente si sia preso un colpo alla nuca il giorno successivo (come riportato da numerosi fonti) dovrebbe esserlo.
Pensateci, addentando il vostro prossimo involtino primavera, e scusatevi col vostro gatto se l'avete,  perché potreste esservi appena gustati la sua mamma.

mercoledì 4 dicembre 2013

Premature dipartite

Siamo ciò che abbiamo visto da piccoli, fondamentalmente.
Basta un piccolo scarto, un attimo qualsiasi in cui vediamo qualcosa che ci colpisce e da attori diventiamo scienziati o astronauti.
Ovviamente se le condizioni di partenza non ci orientano comunque al lavoro in miniera.
Ma anche lì, mentre spacchiamo la roccia, nell'intimo sapremmo con precisione cosa avremmo voluto: o attori o scienziati o astronauti.
Io, per dire, avevo da piccolo un dirimpettaio salumiere, Angelo Vailati, che per me era solo il salumiere sotto casa e la cosa non mi colpiva particolarmente, se non che odorava sempre di prosciutto.
Infatti non ho fatto il salumiere.
Vailati su Vespa 90ss

Ma se avessi scoperto in tempo il fatto che Angelo Vailati era stato un grande campione di Vespa negli anni sessanta, forse adesso oltre ad apprezzare la mortadella sarei stato un campione di Vespa.
L'ho scoperto troppo tardi.
Frank Zappa invece ascoltò in tempo Ionisation di Edgar Varèse, composizione per percussioni del 1931, per fortuna, perché poi nella vita fece quel che doveva fare.
E ne fece molto, perché è stato un musicista che definire prolifico è molto riduttivo: più di 95 album ufficiali, senza contare miriadi di bootlegs e altra roba strana.
Non sono qui a fare l'apologia di un genio che tutti dovreste conoscere ed ascoltare, perché non ne ha bisogno, ma solo a constatare che oltre alla musica anche il suo baffo+mosca spaccava.



Quel che invece qui voglio ricordare di Zappa è una copertina, una tra quelle 95 o più, perchè nata in Italia durante un tour del 1982 dal quale fu tratto un disco dal titolo "The Man from Utopia".
Per motivi vari e poco interessanti capitò che Zappa si sedette al tavolino di un bar romano con una copia di Ranxerox in mano (la stessa edizione che comprai io, tra l'altro).
A spiegargli cosa diceva nei balloon il coatto sintetico vediamo qui sotto Tanino Liberatore, che lo disegnava, e Stefano Tamburini che l'aveva inventato e lo scriveva.


Tamburini cerca un contegno ma pende verso Zappa, che chiede lumi sui testi.

Zappa ce l'ha tolto un cancro, Tamburini un'overdose, Liberatore nessuno e infatti fortunatamente ci delizia ancora con le sue matite.
Tanto piacque a Frank il lavoro di Liberatore e Tamburini da affidare loro il concept della copertina dell'album di cui parlavo sopra.
Il risultato fu il seguente, con Zappa in versione Ranx fronte retro, che scaccia le mosche che lo assediarono durante il concerto al parco Redecesio.




E se Zappa è grande, gli altri due lo sono altrettanto.
Non esagero.
Nel campo del fumetto, tra i '70 e gli '80, dobbiamo a loro e agli altri componenti la redazione del Male, (poi Cannibale poi Frigidaire) se in quel campo l'Italia era l'avanguardia artistica mondiale.
Tamburini-Pazienza-Scòzzari-Liberatore-Mattioli-Mattotti(riserva) dovrebbe essere una formazione da ricordare più della classica Sarti-Burgnich-Facchetti, però non è così.
Infatti siamo italiani, e nel momento supremo questo peserà parecchio sul piatto della bilancia.
Preparatevi, se credete a quell'aldilà.
Il problema è che stando a contatto con quei fuoriclasse, il povero Stefano si sentiva una merda.
Disegnava bene, ma chiaramente spariva al confronto e quindi si difendeva con quello che aveva a disposizione, e quello che aveva era comunque genio.
A parte ideare Ranx che sarebbe sufficiente, quello che considero abbagliante è Snake Agent.
Un ciclo di storie ottenute dalla fotocopiatrice, dentro la quale muovere tavole di vecchi fumetti noir anni '40 per ottenere deformazioni di visi e corpi e suggerire la velocità con la quale 'ste assurde avventure si svolgono (roba tipo: "cara sono a Tokio, prendo l'aereo e sono da te fra tre minuti", "eccomi tesoro, scusami, ma tra un minuto e quaranta ho un appuntamento a Sidney").
Se confessaste al prete di non averlo mai letto, giudico possibile che vi obbligherebbe a dieci pater noster, fate voi.
Per scansare la longa mano clericale affidatevi a ebay o a qualche fumetteria/mercatino dell'usato, vi farà solo bene al cuore.


Capito come?
Quel che dispiace è che la prematura dipartita ci abbia privati di chissà che altro e abbia privato lui del giusto riconoscimento (che è arrivato postumo, e se succedesse a me mi farebbe incazzare dabbestia).
Non solo, probabilmente è morto convinto di non valere molto, a poco più di trent'anni.
Sbagliava, perché qui da noi, spesso, chi non vale molto è straordinariamente longevo.