giovedì 18 dicembre 2014

Melotti e Marzal



Se c'è un filo che lega Fausto Melotti a Marcello Gandini, questo è sicuramente fatto di lucido metallo.
Il primo, dopo una laurea in ingegneria e studi musicali, attraverso un processo creativo passato attraverso ceramiche e gessi, sintetizzò alla soglia dei settant'anni un pensiero artistico spogliato di ogni fronzolo inutile, sculture esili, vibranti di fili metallici, sottili piastrine e garzine svolazzanti.
Oggetti fatti di suono cristallizzato sull'ultima frequenza udibile dall'orecchio umano prima di sparire.
Una magia che riesce solo ai Maestri.
Questo almeno è l'effetto che la sua robina ha sempre avuto su di me.
Verificate:










Il fatto che fosse stato anche, insieme al suo amico Fontana, allievo del sommo Adolfo Wildt (di cui ho parlato nel post"Fumetti di marmo", non fa che farne lievitare la sagoma, tipo quei soufflè che nel forno promettono godimento nel breve periodo.
Stavo giusto titillandomi con un paio di foto da un libro dedicatogli che un pensiero mi assaliva: Marzal!
Lì dentro c'è lo stesso seme che ha generato la Lamborghini Marzal.
Che è quest'oggetto qui:




Gandini la disegna nel 1967 per Bertone, presso cui lavora.
Sotto il cofano sistemano un duemila a sei cilindri, ottenuto segando in due il dodici quattromila della Miura.
Ne allestiscono una su cui poggiano le regali chiappe i Grimaldi prima del Gp di Monaco di quell'anno, tanto per fare gli sboroni.
Piace.
Non entrerà mai in produzione, ma le sue linee ispireranno l'Espada, un barcone a dodici cilindri che la Lamborghini venderà negli anni settanta ai panzoni danarosi.
Ecco, io nelle linee tese della Marzal ci vedo Melotti, ci vedo quel bisogno di ridurre a pure linee di forza la struttura, togliendo tutto il superfluo: fiancata vetrata, selleria cromata, superfici trasparenti pari a quelle lamierate.
Togliere è aggiungere.
Aerea, leggiadra eppure così intensa: non vibra alla stessa frequenza delle opere di Melotti?
L'unico esemplare è stato ceduto dalla Bertone in bolletta per più di un milione e duecentomila euro, ad un'asta nel 2011.
Le quotazioni dei mobile di Melotti non le conosco ma siamo lì.
Ma questa è un'affinità solo per i rozzi dalle scarpe grosse.

Giacchè mi rivolgo invece a fini dicitori, perchè così immagino i "quater gatt" che visitano il blog, regalo una vecchia perla scritta nel 2003 o giù di lì, dal titolo "Corso di Batman".
Leggetelo, fa ridere.
Il racconto mi ha fruttato venti euro perchè pubblicata in formato e-reader sulla rete da qualcuno che non ricordo bene e che potrebbe denunciarmi per diffusione non autorizzata.
Vedremo, per me non se ne accorgeranno...



CORSO DI BATMAN (2003, circa)



Tutto era cominciato con un manifesto 35x50 nastrato sul vetro del bar.
"Corso di Barman", diceva e poi "numero chiuso, rilascio attestato" ma soprattutto "lauti guadagni" e "possibilità di carriera" scritto più piccolo ma ben visibile, concetti che mi avevano convinto a considerare al tramonto il mio status di disoccupato.
" 22 marzo - via Tiraboschi, 22 - ore 19,00 - primo piano", stava scritto sul fondo del volantino ed io puntuale nel giorno, preciso nell'ora, eccomi davanti al sobrio edificio in stile con i migliori propositi di miscelazione alcoolica.
Il civico fuori non c'era, però il portone prima era il 20, l'avevo visto, quindi non si sbagliava.
Mi spiegheranno come si riempie un mixer o come scegliere il bicchiere adatto, pensavo tra me e me salendo gli scalini.
Al primo piano una lucida targa d'ottone mi informava che dietro quella porta, l'Istituto SASN era regolarmente certificato Iso.
Mi sfuggiva il significato dell'acronimo però, nessuna "B" di bar, barman o simili dentro.
- Buonasera. E' qui per il corso?"
Una occhialuta fanciulla mi aveva accolto da dietro il banco della piccola reception, sul cartellino appuntato alla camicetta c'era scritto Barbara Gordon.
Sarà "Gordòn", è veneta probabilmente, pensai.
- Sì, esatto... Barbara. Il corso di barman. Ho letto un vostro volantino.
Mi aveva guardato con un sopracciglio sollevato: - ... di Batman.
Avevo riso giusto per galanteria a quella che mi pareva una battuta cretina.
- Certo.
- Prego. Faccio strada.
Si era staccata dal banco e mi aveva condotto lungo un corridoio poco illuminato, fino ad una stanza che si apriva sulla destra, nella quale stavano una decina di sedie allineate, una cattedra ed una lavagna, d'angolo.
Non entravo in quella che poteva dirsi l'aula di una scuola da almeno tredici anni, dalla sofferta maturità raggiunta più per grazia ricevuta che per acculturamento reale.
- Compili il modulo di accettazione. Lo ritirerò tra cinque minuti. Il professore inizierà la lezione a momenti.
Il modulo richiedeva dati personali ed informazioni generiche.
Solo non avevo capito cosa interessase alla scuola il sapere se soffrivo di vertigini e se avessi paura del buio, e men che meno quale taglia di mantello portassi...
I miei compagni di classe, sei in tutto, parevano molto tranquilli.
La ragazza era tornata a riprendersi il foglio e mi aveva sorriso, poi si era voltata per tornare di là, dandomi modo di fantasticare sul suo minuto fondoschiena.
Un fruscio alle spalle mi distrasse dagli sconci pensieri.
Il professore aveva preso posto davanti alla lavagna, scivolando in modo scandalosamente silenzioso lungo la parete alla mia sinistra.
- Buonasera signori.
- Buonasera - avevamo risposto in coro come una brava classe di alunni elementari.
Il professore era un uomo sulla sessantina con candidi capelli elegantemente pettinati all'indietro e due spalle da camallo.
Vestiva un completo nero con una spilla dorata sul risvolto della giacca. 
Aveva un accento chiaramente inglese.
- Questa è la prima lezione del corso che, come già sapete, si articolerà su tre incontri settimanali più un laboratorio di tre ore a cadenza quindicinale. Quella parte didattica verrà svolta nella sede distaccata che l'Istituto SASN ha in una palestra attrezzata.
La voce profonda non ammetteva distrazioni, anzi, non le permetteva.
- In una palestra? - pensai - Forse per preparare i cocktails vogliono braccia allenate, muscolose... boh. Ci mancano solo le flessioni.
Era seguito un breve appello, poi, uno ad uno, eravamo stati invitati ad alzarci e ad esporre le motivazioni che ci avevano portati lì.
- Beh, salve a tutti - era il mio turno e non avevo mai gradito parlare in pubblico - sono qui perché ho creduto, e credo - m'affrettai ad aggiungere - che una solida e seria formazione in questa professione possa servire agli altri prima ancora che a noi.
Il professore aveva annuito con partecipazione, poi s'era alzato e aveva raggiunto nuovamente la lavagna.
- La prima lezione verterà sul camuffamento, la parte cosiddetta "stealth" : ricordatevi che il successo dell'azione stessa dipende dai primi istanti. Una buona formazione di base può davvero salvare la vita, agli altri prima che a voi. 
E si era voltato a guardarmi mentre finiva la frase.
Mi ero sentito orgoglioso di aver fatto una buona impressione, tuttavia non riuscivo a capire a cosa servisse 'sto camuffamento mentre servivo un daiquiri: forse durante situazioni particolari, tipo una festa o a carnevale.  
- Per questo esercizio avremo a disposizione la ricostruzione di una banca. La situazione prevede sei rapinatori armati disposti nei punti da A ad F indicati sulla lavagna - e vi aveva battuto sopra con una bacchetta - due ostaggi a terra ed uno a fare da scudo al rapinatore D. Cinque minuti come limite massimo. Attrezzatura utilizzabile nello spazio ristretto: bat-a-rang e cortina fumogena.
Forse avevo capito male: rapinatori?
Il bat-a-rang poteva essere una variante del Negroni, anzi no, forse del Bloody Mary, ma la cortina fumogena a che doveva servire?
Aveva detto banca, mica discoteca.
Si era avvicinato a noi studenti e avevo potuto vedere cosa fosse quella spilla che luccicava sul tessuto nero: era un pipistrello stilizzato.
Mi ero voltato in giro, un po' smarrito a cercare sostegno nei miei colleghi, ma quelli stavano tutti composti, a prendere appunti, senza manifestare sorpresa.
Mi ero sentito battere sulla spalla: era il mio compagno della fila dietro.
- Va là, io avrei aperto con una carica di bat-dinamite, poi la cortina fumogena e poi il bat-a-rang. Tu che dici?
- Che dico... eh, io non sarei così drastico... insomma... mhh, magari starei calmo all'inizio. Bat-calmo!
Non so perché l'avevo detto, forse per sentirmi parte del giro, ma quello non si era stupito ed era tornato a scrivere ridacchiando sommessamente.
Evidentemente la maggior parte di loro già conoscevano la lista dei cocktails, partivo male.
All'intervallo mi ero alzato ed ero corso dalla ragazza alla reception, dopo essermi sentito spiegare dal professore quale nervo premere per indurre lo svenimento e la perdita di memoria temporanea.   
- Senta signorina Gordòn, mi scusi...
- Gordon.
- Ah, pensavo fosse un cognome veneto...
- Oh no, sono di Gotham.
- Ah, non conosco... volevo chiedere, ma questo che corso di barman è? Non ci sto capendo niente. Si tratta di un corso avanzato per caso?
La ragazza aveva aggrottato la fronte.
- Guardi che i corsi di barman sono al numero 22.
- Ma non è questo è il 22? 
- No, questo civico non ha numero per riservatezza. Il 22 è al portone successivo. Qui c'è il SASN, l'ha letto fuori, no?
- SASN. Sì, l'ho letto e allora?
- Società Addestramento Supereroi Notturni, questo è il corso di batman, glielo avevo detto quando è arrivato. Credevo lo sapesse.
- Come? Di Batman dice?
Una mano mi si era appoggiata alla spalla: pesava almeno due chili.
- Professor Wayne, il ragazzo qui ha sbagliato indirizzo.
Mi ero voltato trovandomi faccia a faccia col professore.
- Ragazzo, capisco che tu possa trovarti in difficoltà, sono argomenti complessi. Però nei tuoi occhi ho visto la nobiltà, l' abnegazione. Non mi sbaglio mai, tu puoi fare molto per il tuo prossimo. Molto più qui da noi che non al 22, alla scuola per barman.
Tentennavo.
- Preferisci uno spruzzato o proteggere l'umanità dal crimine? Non credo di essermi sbagliato sul tuo conto.
Come dargli torto? In fondo anche quello del supereroe è un mestiere onesto.
- Vabbè, magari ci provo...
- Bravo.
Cercavo di immaginare la faccia di mio padre quando mi sarei presentato a casa con un bel diploma da Batman.
Ero tornato in aula.
Dalla terza ora c'erano "nozioni di sbandata con la batmobile".
Bene.
Questa è la mia storia.
Anche oggi sono convinto che non è stato un caso notare quel volantino sulla porta.
E ne sono contento, comunque.
Mi sono diplomato a pieni voti ed ora copro la zona sud-ovest della città.
Ho la batmobile aziendale e ticket pasto, un buon fisso più una serie di benefit legati al numero di malviventi arrestati.
Cioè, c'è un coefficiente da moltiplicare alla cattura, a seconda che sia uno stupro, una rapina o una tentata strage.
Insomma sono felice.
L'unico problema rimane quello di convincere mia madre che maschera e mantello vanno lavati a secco, perché altrimenti stingono.

mercoledì 17 dicembre 2014

Essere una fermata d'autobus

Ho cominciato a scrivere con assiduità più o meno undici o dodici anni fa, grazie ad alcuni siti che permettevano il pubblico ludibrio dei pezzi proposti.
Liberodiscrivere e Scritturafresca sono i primi che mi vengono in mente.
La faccenda si presentava così: l'autore postava il suo parto letterario, in forma di racconto per motivi pratici di fruizione, poi attendeva con apprensione i giudizi del pubblico.
Mi ricordo con quale soddisfazione vedevo arrivare le singole notifiche di commento ricevuto, anche perchè erano generalmente positive.
Il mio antico spirito competitivo aveva trovato un nuovo campo d'azione nella corsa all'accumulo dei punti e relativa salita nelle classifiche di gradimento dei siti.
Un paio di pezzi erano poi riusciti ad uscire da lì ed a infilarsi in un libro vero, cartaceo dico, il che mi aveva gonfiato come un pallone ad elio.
Vabbè, preambolo nostalgico terminato.
Vado a proporre uno di quei pezzi là, scritto nel 2003, ripescato da una cartella sommersa nel computer e messo qui a sgocciolare lentamente.
Si intitola "Essere una fermata d'autobus"e mi pare di averlo scritto mosso dall'esigenza specifica di abbindolare gli utenti, che si dimostravano più attenti alle introspezioni ed alle storie cerebrali piuttosto che agli spargimenti di sangue.
Regola numero uno: capire cosa vuole il pubblico, indi cogitare.
Sale e pepe q.b. poi scrivere.
Non lo faceva Proust probabilmente, infatti morì barbone, lo fa la Rowlings invece, infatti cià le Rolls.

L'importante non è essere, ma farlo credere (triste ma vera verità).

Comunque, eccovi:


ESSERE UNA FERMATA D'AUTOBUS 


Sono isola, sono approdo, sono tronco d'albero che galleggia su di un fiume di cemento, sono quattro pali di ferro e lastre di vetro sporco, caldo o freddo io sto lì, non posso fare altro.
Sono una fermata d'autobus.
Poteva andarmi peggio in fondo: conosco alcune fermate di metropolitana che non hanno mai visto il sole di una giornata di maggio, ad esempio, sempre là sotto nella penombra e nel silenzio.
Non è molto, lo so, ma per me è già qualcosa e me lo tengo stretto.
Da anni svolgo il mio compito con professionalità.
Ho il mio palo arancione con l'orario e il percorso del bus e una bella pubblicità che mi cambiano mensilmente; è un po' pisciato, ma è colorato e rallegra l'ambiente.
Sono fiera del mio cartello pubblicitario, voglio che chi mi vede pensi di me che anch'io ho una dignità, uno scopo ed un posto rispettabile nella società, perché io accolgo gente, notte e giorno, la guardo aspettare, poi salire e scendere, senza fermarsi mai, senza poterla fermare mai.
Tutti i giorni, anche i festivi.
Alle volte cerco di farmi sentire, di iniziare un discorso ma quelli sono troppo presi dalle loro corse, dalle loro cose.
Viaggiano verso il capolinea, sperando che il bus non sia in ritardo, credendo di trovare qualcosa di nuovo ad aspettarli invece delle solite fermate che conoscono ormai a memoria. 
Alle mie spalle c'è un ristorante cinese.
Era già lì quando sono arrivata, qualche anno fa.
La signora, credo la proprietaria, esce ogni mattina e lava i vetri e lo fa con una professionalità direi pari alla mia.
Tutti i giorni, anche i festivi.
Si vede che il ristorante per lei è qualcosa, e se lo tiene stretto.
Un giorno, una mattina, la signora non è uscita a lavare i vetri.
Si è seduta qui, sotto la mia pensilina, e si è messa a guardare per un po' la gente che saliva e scendeva, senza fermarsi mai.
Nessuno ci ha fatto caso, tutti presi dalle proprie cose, ma la signora piangeva.
Avrei voluto dire, fare qualcosa, ma che volete, sono solo una fermata d'autobus.
Chissà per quale motivo piangeva.
Non l'ho  vista nemmeno la mattina dopo pulire la vetrina del ristorante, e nemmeno le mattine successive.
Il locale poi è stato chiuso qualche mese più tardi, mi pare fosse il periodo in cui sfoggiavo quel bel cartello pubblicitario della compagnia assicurativa.
Ero più fiera del solito con quella pubblicità, bei colori, belle persone raffigurate, sorridenti e felici.
A ben pensarci gente del genere io l'ho vista solo nelle pubblicità, mai nessuno che passasse sotto il mio tetto con quell'aria distesa, quel sorriso ostentato.
La vetrina del ristorante invece non l'ha più pulita nessuno, tanto che poi, giorno dopo giorno, è andata coprendosi di una brutta patina grigiastra.
Mi dà un po' fastidio questa immagine poco curata perché io ci tengo al decoro del mio tratto di marciapiede, ci mancherebbe.
Cosa penserebbe di me la gente se mi vedesse nelle stesse condizioni?
Sì d'accordo, sono presa di mira dai cani e dagli ubriachi, la notte, ma complessivamente cerco di mantenermi.
Poi a ben guardare, ed io di tempo per farlo ne ho a sufficienza, ho notato che quello strato di grigio polveroso lo conoscevo già.
Lo vedo da anni, avvolgere la gente che transita sotto i miei quattro pali di ferro.
Soprattutto vedo tanti, troppi occhi che non cercano altri occhi, che non vogliono o non possono vedere.
Mah, che volete, mi sbaglierò.
Dopotutto sono solo una fermata d'autobus.
Come voi.



lunedì 8 dicembre 2014

L'immane succhiotto


Postassi fumetti o vignette alzerei più visite sul blog.
Il fumetto ha la dimensione ideale per questo media, lo riempie di giustezza senza distrarre e, se fatto bene, genera spontanee condivisioni, like, cazziemazzi social.
e son tutti contenti.
Ma io non faccio fumetti, scrivo.
Quindi ci metto quel che ho, e quel che ho qui è un racconto che nel 2006 mi venne pubblicato da Liberodiscrivere nella raccolta "I contorsionisti".
Gratis, ovvio.
Così altrettanto gratis vi presento:


L'IMMANE SUCCHIOTTO

Superato il casello la manò calò sulla patta del mio jeans.
Lei mi guardava con occhi lascivi, intorno a noi solo il fruscio del vento e Settimo Torinese, ad uscire, via verso Milano, poi, fra un'ora, si vedrà.
Fingo indifferenza, guardo il traffico, ma il turgore si manifesta subdolo.
La mano fruga, preme, indaga.
L'idea non mi dispiace.
Poi la strada che scorre sotto, sobbalzi e rappezzi, cantieri eternamente aperti e la sera che incombe lenta, ché è quasi estate.
Mi guarda morsicandosi il labbro: c'è buio abbastanza?
No, sì, forse.
Io guido, lei apre la zip cozzando con le unghie sulla carne lucida e tesa.
Io guardo davanti e poi dietro, dedicando tempo e attenzione ai tre specchi.
Il braccio sinistro alzato contro il vetro, tanto per schermare un po'.
Mi pare che ci vedano tutti.
E forse è così, chissà.
Su e giù, su e giù, parte l'implacabile operazione pneumatica.
Risucchi e sbuffi e gemiti, Milano novanta chilometri.
Passo dai cento ai centotrenta in continuazione, rallentando quando chi mi affianca lo fa con lentezza o accelerando per sfuggire senza essere notato dagli altrui abitacoli.
E i camion?
Vedranno il suo pompare mi sa.
E suda, anche.
La sento con la mano destra, che scorre dal pomello del cambio di fredda plastica alla fornace che ha tra le cosce.
Frugo anche io, maledizione a traffico e sobbalzi.
Luci abbaglianti nello specchietto: chi è?
Mi vede che godo?
Che figura di merda.
No, non mi ha visto.
Milano ottanta chilometri.
Su e giù, su e giù.
Sensazioni contrastanti dal profondo.
Un paio di volte sto per imboccare il bivio che porta all'eruzione ma sbaglio strada.
Sono distratto, forse.
Maledetto traffico di rientro.
Tengo la seconda corsia, a volte la terza, cercando spazio libero; dovessi venirmene all'improvviso non voglio testimoni se non lei.
La sua bocca piena di me, dai che arrivo.
No.
Un pullmann cambia corsia, lampeggiando pigro col giallo delle sue freccione.
Il ritmo scende appena appena.
Mi inarco allora, su che che ce la fai.
Su e giù, su e giù e settanta, anzi no, cazzo solo cinquantacinque chilometri a Milano.
Ma quant'è che va avanti?
E allora la sento che aumenta il ritmo, una guerra personale tra donna e cazzo.
Ecco, forse... forse, sento un rimescolìo nel ventre... dai, dai.
Niente.
Piccola onda di riflusso, il sangue torna in giro, falso allarme.
E su e giù e su e giù, ed anche intorno adesso, che maestria.
Quaranta chilometri a Milano, il cartello era Biandrate se non erro.
Ho anche il tempo di concentrarmi sulle località, brutto segno.
A volte perdo la cognizione del pene, mi pare che lei sia solo accoccolata sul mio grembo.
Accartocciata; meglio.
Bruttissimo segno.
E mettici un po' di buona volontà, dai.
Pensa ad un bel porno magari, aiutati, prima che comici a pensare che di lei non te ne importa più.
E' una donna, ha strani processi mentali.
E se per ripicca me lo morde?
Il su e giù ora è scomposto, lei suda come una scrofa ed i vetri vanno appannandosi. 
Barriera di Milano a dieci chilometri.
Cosa?
Non ci credo, io ho ancora i pantaloni alle ginocchia.
Lei poco fa mi ha lanciato un'occhiata, ne sono certo.
Quel che ho visto non mi è piaciuto nemmeno un po'.
Mi odia o forse si odia.
Cristosanto, ma perchè non vengo?
Un attimo di oblìo e risolviamo la situazione, no?
E invece qui si configura un dramma, una scena madre, già lo vedo.
Tutto per un miserabile pompino.
Ti prego, reagisci maledetto, non senti che lei sta cedendo?
La vuoi vedere sconfitta, ho capito.
Una erezione di cento e passa chilometri.
Un po' sono orgoglioso però.
Decido in un attimo: accosto, scagliando la freccia di destra più che accenderla.
Mi infilo mezzo di traverso nella piazzuola di sosta, luci di posizione accese.
Anzi tengo il freno, gli stop li vedono meglio.
E se mi tampona un tir?
Succede spesso.
Tutto appannato, non vedo più niente fuori, solo i fari delle auto che sfrecciano come delle comete.
Penseranno che son fermo a scopare.
Abbasso di un pelo i finestri, per cercare di salvare le apparenze.
I vetri si puliscono un po', allora socchiudo il tettuccio e richiudo il finestrino di destra.
Nel silenzio solo i clic! dei tasti e il fric! dei cristalli, oltre al risucchio, certo, che ora è disperato .
Che situazione di cacca.
Su e giù, su e...
Si rialza, dopo un'ora di esercizio estenuante.
Le ha tentate tutte ed ha perso.
Mi guarda come un cerbiatto fa con il furgone che lo sta per investire.
Cerco di alleggerire la tensione.
- Che caldo, eh?
Lei non cambia espressione.
- Anche i finestrini. Quando ho sentito con quale precisione manovravi i finestrini dopo un'ora di pompa ho capito che era finita.
Come "pompa"
Non ha mai detto una parolaccia prima d'ora. 
Poi si butta indietro, in preda ad atroci dolori.
Mi sa che s'è infiammata qualche nervo, poverina.
Riparto mestamente.
Lei si lamenta con le mani a coppa sull'occhio destro: - Ahia, ahia, mi scoppia la testa.
Siamo in città ora e nessuno dice nulla, solo lamenti suoi ed imbarazzo mio.
Con tutto ciò mi accorgo che ce l'ho ancora di fuori, dritto come un palo.
Totemico quasi. 
Rinfodero senza dare nell'occhio.
Mi fermo sotto casa sua e tento un bacio distensivo.
Mi evita uggiolando, sempre con la mano sull'occhio.
Esce e gira dietro la macchina, perchè mi sono fermato troppo vicino a quelle parcheggiate e dal davanti non ci passa.
Barcolla un po' sui tacchi a palafitta.
Mi sento una merda.
Butto l'occhio nel retrovisore e non vedo nulla, perchè lei nell'esatto istante s'è piegata in due per una fitta d'emicrania più intensa.
Ingrano la retro e scatto con un po' di imprevista rabbia.
Sento un tonfo ma lo ignoro, perchè voglio arrivare a casa in fretta per dimenticare tutta la faccenda con una salomonica sega.
Non guardo nemmeno alle spalle, sono sconvolto.
C'eravamo tanto divertiti oggi, e poi era solo...solo un pompino, niente di che.
Guarda cosa ti va a succedere.




Appena dopo la sega di cui parlavo, ho deciso di chiamarla.
Questione di coscienza, volevo rassicurarla sulla solidità del sentimento.
Non risponde, me l'aspettavo.
Mi chiama un paio d'ore dopo dall'ospedale.
Le ho fratturato il bacino e le hanno messo anche un collarino semirigido, senza spiegarsi la connessione tra le due patologie traumatiche.
Quella me la spiego io.
Mi metto a letto e spengo la luce.
Domani vado a trovarla con un mazzo di fiori.
Le donne...