domenica 14 agosto 2016

Resistenza ad oltranza

Il premier turco Tayyip Erdogan e il Direttore del Reparto Corse Mv Agusta Magni hanno in comune una caratteristica: la resistenza oltre ogni ragionevolezza.
L'uno, il turco,




dopo undici anni di governo, sta facendo a pezzi decenni di lavoro che Mustafà Kemal detto Ataturk spese per il proprio paese facendone un esempio di equilibrio tra culture e religioni, rendendolo un simbolo che è presente affisso ovunque ad Istanbul (Ataturk significa, "Padre della patria") e lo fa con la resistenza ad oltranza di un presidente democraticamente eletto, dice, ma che opera contro ogni rispetto per la persona, gli elementari diritti al dissenso, alla libertà di opinione persino con la persecuzione verso una minoranza, quella curda, fatta spesso passare per ciò che non è, un gruppo di terroristi pericolosi per la democrazia.

Ma non sono mica i media nostrani a spiegarci che lassù, nel lembo di territoio che si chiama Rojava e che nessuno conosce, essi lottano per resistere ed esistere e per dimostare che spessissimo gli attentati sono orchestrati proprio dal Governo per mettersi in posizione di forza, e in quanti hanno pensato e pensano lo stesso del golpe appena sfiorato, (una roba da operetta che rivaluta il nostro vecchio Junio Valerio Borghese....) che ha dato la possibilità di dar sfogo ad arresti a carrettate col sorriso gioioso e il cuore spumeggiante di un Tayyip mai così tronfio e sgomitante nello scacchiere politico mondiale?
Tornando a bomba, il Rojava è un'utopia stretta tra i confini della Turchia e della Siria, il  luogo dove un popolo reclama la sua indipendenza e dove si combatte (e moltissime sono donne, quindi musulmane, quindi giù un altro luogo comune sull'islamismo d'accatto che ci viene propinato come uno e monolitico), contro l'Isis e le sue puttanate religiose senza dire beh, e senza troppo clamore, dedicando una vita alla causa.
Tanto per dirlo una volta per tutte che non c'è nessuna nuova crociata in giro, i musulmani si ammazzano anche tra di loro che è un piacere, ma questo nessuno lo scrive.
Anzi sì, l'ha fatto, benissimo, uno che avrebbe potuto dedicarsi ad altro, perché già altro lo fa e lo fa bene: Zerocalcare con la sua testa a pera  e il suo Kobane Calling, graphic da leggere e rileggere per capire come vanno le cose, riservando alla stampa nazionale di approfondimento il ruolo di accenditore per la carbonella per Ferragosto.
Ne ripropongo la copertina, per gli sbadati:




Ma poi c'è Mr. Arturo Magni in tutta questa storia, l'aggancio ardito, che si merita, ovviamente, una foto ben più grande di quella di Erdogan.




L'uomo è purtroppo mancato qualche mese fa, ed ha rappresentato in modo specularmente inverso la resistenza ad oltranza che oggi è del Tayyip, profusa fino ad un certo punto con gli stessi metodi: competenza specifica, timone di comando stretto in pugno a guidare un manipolo di scherani, un obiettivo chiaro in mente con lo spettro della disfatta sempre davanti agli occhi.
Lui però non ammazzava nessuno, non inventava colpi di stato, non faceva sparire giornalisti, scrittori, opinionisti e pensatori.
No, lui si chiudeva nel reparto corse di Verghera di Samarate, e sperimentava come fare andare più forte una motocicletta da corsa, oltre i suoi limiti.
Fortunatamente non solo, ma col braccio armato dell'Ingegner Bocchi al tavolo da disegno, sommo conoscitore di sistemi di distribuzione veloci che in Giappone avrebbe avuto quindici lauree.
Come scritto nel post "Rogo", nel 1976 l'Mv Agusta, la marca motociclistica più prestigiosa e titolata del mondo vinse l'ultimo Gp con Agostini in sella.
Un ultimo, lancinante, canto del cigno, urlato dai suoi quattro scarichi a megafono.
Ma quella era una moto già congelata, era la massima evoluzione che risaliva all'annata precedente nella quale, comunque, era stata sconfitta.
Chi c'era dall'altra parte?
Il Pkk?
No, i giapponesi, che per certe cose sono ancora peggio.
I giapponesi, Suzuki e Yamaha, la Honda sarebbe arrivata un po' dopo, puntavano sul due tempi e a furia di botte tecnologiche, dischi rotanti e soprattutto le espansioni avevano stretto all'angolo il quattro tempi sia nella classe 350 che in quella regina, la 500, superandolo in potenza ma non ancora in guidabilità.
Magni decise allora di arroccarsi lì, al top, e dare tutto quello che poteva per resistere all'orda saladina:
tra il 1974 e il 1975 il motore della Mv 500 passò da tre a quattro cilindri, per cercare cavalli in alto, e attraverso progressivi step alla cilindrata piena di  498,6 cc, sempre bialbero, 4 valvole, raffreddato ad aria con un regime massimo di 14.000 giri.
In quella zona i cavalli ballavano tra i 98 e e 100... ancora troppo poco.
E allora, via i cerchi a raggi e su i primi a razze in lega leggera, su le prime semislick e poi slick pure con i megafoni che si debbono alzare per non strisciarli a terra in piega, coppia di freni a disco Scarab in luogo dei cavernosi fontana a tamburo, codino aerodinamico col ricciolo sollevato, vari tipi di telaio con inclinazione differente degli ammortizzatori.
Eccola, nella sua ultima evoluzione:




Macché, i due tempi vanno ancora un pelo di più... anche perché nel frattempo non stanno a guardare e si difendono essi stessi dalla furia disperata degli italiani che non ci stanno a beccare colpi di katana sul collo.
Poi finisce tutto di colpo, il Reparto Corse viene chiuso e la meravigliosa lotta di Arturo Magni cessa, quando in officina è pronto un mezzo completamente diverso, con motore quattro cilindri boxer che dalle prime botte al banco pare passi giù i cento cavalli in scioltezza.
Come sarebbe andata?
Probabilmente male comunque, alla lunga, vista la storia presa dalle competizioni, ma sarebbe stato bellissimo resistere, resistere e resistere.
Come andrà in Turchia?
Probabilmente nello stesso modo.

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